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Come scompaginare l’industria culturale<br />
Che esista un’equivalenza garantita tra editoria indipendente<br />
e editoria «di qualità» è una credenza infondata e autoconsolatoria.<br />
Quando il discorso critico non elimina il conflitto ha una forma<br />
efficace di indipendenza. Il resto è spesso esercizio vuoto e narcisistico<br />
Marco Bascetta, «Alias del manifesto», 21 marzo 2016<br />
Quanti anni sono che ne parliamo! Con toni sempre<br />
più allarmati per la loro sopravvivenza mano a mano<br />
che i processi di concentrazione avanzavano, che le<br />
economie di scala divoravano tutto. Ne è passato<br />
del tempo da quando André Schiffrin ci metteva in<br />
guardia da un’«editoria senza editori» che avrebbe<br />
cancellato ogni soggettività culturale a favore di una<br />
oggettiva, impersonale, macchina da guerra per la<br />
conquista del mercato. Alla difesa dell’indipendenza<br />
abbiamo dedicato nel corso degli anni decine di<br />
articoli, convegni, manifestazioni, fiere, presidi, petizioni.<br />
Abbiamo proposto, e a volte sperimentato,<br />
formule organizzative reti e associazioni, mentre,<br />
in ordine sparso, editori piccoli e medi, librerie «di<br />
proposta», produzioni cinematografiche e musicali,<br />
continuavano a proliferare, a nascere e morire in<br />
gran copia. Intanto la vita grama si riproduceva senza<br />
particolari scosse, i grandi gruppi continuavano a<br />
fondersi e ristrutturare il mercato a propria immagine<br />
e somiglianza e la «bibliodiversità» a conservarsi<br />
nella sua orgogliosa clandestinità.<br />
Converrà allora porsi qualche domanda priva di tatto<br />
su quella rivendicazione di indipendenza senza<br />
aggettivi che per tanto tempo abbiamo considerato<br />
una qualità morale autosufficiente, un certificato di<br />
qualità senz’altri requisiti. Un principio di legittimazione<br />
a uso di piccoli e medi narcisismi. Un certificato<br />
di identità a costo ridotto e alla portata di<br />
tutti. Ignoriamo forse come le piccole imprese editoriali<br />
possano spesso essere un gioco, talvolta un<br />
capriccio, geloso delle proprie fisime e prigioniero<br />
dei propri umori? Certo queste qualità così infantili<br />
possono favorire la sperimentazione, l’azzardo, l’inconsueto.<br />
E questo è un pregio. Ma anche la stonatura,<br />
la mediocrità, l’approssimazione, perfino l’autismo.<br />
E questo è senza dubbio un inconveniente.<br />
Che esista un’equivalenza garantita tra editoria indipendente<br />
e editoria «di qualità» è una credenza<br />
infondata e autoconsolatoria. In tutta indipendenza<br />
si può scegliere di imitare in sedicesimo le più<br />
banali scelte orientate al mercato o fare anche di<br />
peggio. Di contro, le grandi dimensioni e le grandi<br />
risorse non costituiscono un impedimento assoluto<br />
alla scoperta, all’innovazione, all’eccellenza del risultato.<br />
Seppure il modesto spessore culturale dei<br />
manager che attualmente governano le concentrazioni<br />
editoriali lo rendano assai raro se non improbabile.<br />
Ma volendo prendere seriamente atto<br />
di questi limiti ed esaminare senza infingimenti le<br />
peripezie dell’indipendenza, allora non potremo<br />
esimerci dal porre una semplice domanda: indipendenti<br />
da cosa e per fare che cosa? Non basta<br />
sottrarsi ai cartelli editoriali, non basta non dover<br />
rispondere a un padrone o a una assemblea di azionisti,<br />
nemmeno collocarsi, più o meno concretamente,<br />
al di fuori da quella che una volta veniva<br />
chiamata «industria culturale». Bisogna combatterla.<br />
Destrutturarne i meccanismi, disturbarne le<br />
abitudini, scompaginarne l’agenda. E questo non<br />
lo si può fare rinchiudendosi in un cenacolo che<br />
si ciba della propria squisitezza. Non lo si consegue<br />
mettendo in scena uno stucchevole exemplum<br />
virtutis e men che meno crogiolandosi nella condizione<br />
operosamente sobria del lavoro artigiano