FABRIZIO COSTANZO WORK IN PROGRESS 1

L’artista e la bottega medioevale...sempre attuale
Proviamo a dare uno sguardo alla civiltà del passato soffermandoci, in particolare, su di un preciso momento storico,
buio per alcuni, attivo e pieno di prospettive per altri: il Medioevo. Tali considerazioni partono, neanche a dirlo, dall’universo
artista, pieno di problematiche anche in quel tempo; questi, pittore, scultore o architetto che fosse, viveva all’interno
di un meccanismo perverso che ne azzerava la professionalità e la libertà espressiva, relegando la sua attività
sociale ad una dimensione di secondo piano, comune a molte altre. La condizione culturale era così bassa che nessun
esponente dell’alta borghesia o della nobiltà avrebbe mai pensato di intraprendere tale strada. Istituzionalmente l’artista
doveva far parte di una corporazione che, in apparenza, lo proteggeva e lo preservava da ingiustizie palesi: in realtà
tanti erano gli oneri e le regole che doveva seguire, inesistenti gli onori. Il pittore apparteneva alla corporazione dei
Medici e degli Speziali così come i mercanti di colore, i medici, i farmacisti e i commercianti di prodotti vari. Scultori ed
architetti, ancor più giù, appartenevano alla corporazione minore dei Muratori e dei Carpentieri. Il pittore, sembrava
quindi quello messo meglio, ma in realtà il suo potere di contrattazione all’interno della corporazione era assai relativo
in quanto si configurava come semplice sottoposto dell’arte al pari dei macinatori di colori e degli imbianchini, senza
avere alcuna parte attiva nel sistema. La situazione per il pittore però, gradualmente, sembrò migliorare dalla metà del
Trecento in poi, e si assistette a continui segnali d’indipendenza e di dinamicità di questi, tali da arrivare, in seguito,
persino alla riunione autonoma come dipintore e a far parte della Compagnia di San Luca (Firenze), un’importante confraternita
religiosa di laici. Il pittore quindi, emancipato rispetto allo scultore ed all’architetto, cominciò ad organizzarsi in
maniera sempre più qualitativa mostrando un estremo rigore procedurale nella pratica didattica.
La bottega era organizzata capillarmente e considerata l’ombelico del mondo. Tutti gravitavano attorno ad essa: apprendisti,
giornalieri, aiuti, gente comune, artisti vari, ricchi borghesi, ordini monastici, nobili, ecclesiastici ecc.. Nella
bottega si realizzavano oggetti di diverso tipo perché l’artista, avendo una formazione poliedrica, riceveva le commissioni
più disparate, dall’affresco alla gualdrappa da cavallo, dalla pala d’altare agli stendardi e ai cortinaggi, solo per
fare qualche esempio. Il pittore iniziava come apprendista presso un Maestro della corporazione; qui, con un approccio
graduale, imparava il mestiere e la disciplina, cominciando, com’è ovvio, dalle mansioni più umili, prime fra tutte la
macinazione dei colori e la preparazione delle tavole. Per anni seguiva il proprio Maestro con impegno e dedizione
senza avere la possibilità e la coscienza di dipingere autonomamente. Solo in seguito l’apprendista-pittore poteva copiare
i capolavori del Maestro e impararne tutti gli espedienti. La corporazione prescriveva anche i colori da usare e
quelli da bandire (ad esempio era proibito il blu di Prussia e concesso invece il blu oltremare, che peraltro insieme al
color oro era fondamentale e molto caro).
Nel Medioevo il rapporto artista-committente era sintomatico della società di quel periodo: non esisteva la cosiddetta
libertà artistica così come la intendiamo oggi e, chi commissionava, si aspettava dall’artista esattamente la trasposizione
pratica del suo pensiero senza divagazioni di sorta. Solo il sommo Giotto, riconosciuto unanimemente e celebrato
fin dai tempi, poteva esprimere il suo genio liberamente (ma sempre entro certi limiti). Il rapporto artista-committente
era quindi unilaterale e poco (o per niente) democratico, e come tale equiparato ad un qualsiasi rapporto tra l’autorità e
l’operaio subordinato. Il committente poteva inoltre esigere un eventuale risarcimento dall’artista se il prodotto finale
non lo soddisfaceva, in virtù del fatto che era l’unico a potere sostenere l’onere per le procedure. Tutto questo potrebbe
far pensare che i contratti stipulati fossero superficiali nella loro stesura: nient’affatto! – Molti aspetti del prodotto da
realizzare erano ben definiti ed evidenziati: dimensioni, materiali, numero delle figure e ancora, compensi, termini del
pagamento, scadenze di consegna dell’opera. L’artista doveva accollarsi le spese del salario dei lavoranti della bottega
e, spesso, dei materiali occorrenti per eseguire l’opera. E’ facile, a questo punto trarre la conclusione che l’artista beneficiava
ben poco del fatto di potersi riunire all’interno della corporazione dovendo sottostare a contratti così pesanti.. La
voglia di arricchirsi o di stare bene economicamente, anche a quei tempi, doveva essere forte per la categoria, ma le
somme elargite dai committenti erano quasi sempre esigue e non permettevano all’artista di condurre una vita agiata;
pare addirittura che, nel caso di commissioni monastiche, il pagamento avvenisse in natura.
Queste le considerazioni sul periodo storico preso in esame; sorge spontanea una domanda: potrebbe essere valida,
oggi, un’organizzazione didattico-professionale così strutturata? Una sorta di fabbrica delle idee dove artisti dalla formazione
completa rispondono ad ogni tipo di richiesta del committente più o meno ricco ma pur sempre esigente?
La storia ci insegna che qualcosa di simile è già stato sperimentato in Germania con la scuola Bauhaus di Weimar…