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Imp. carceri modificato - Consiglio Regionale della Sardegna

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Attraverso l’emarginazione del deviante, pertanto, la società si autodefiniva, acquisiva<br />

la sua consistenza e legittimazione.<br />

Ciò che è poco noto è che già in quel periodo, a fine ’800, dopo i primi decenni<br />

di esperienza <strong>della</strong> detenzione di massa, si aprì un ampio dibattito tra criminologi,<br />

giuristi e amministratori del settore sul fatto se il carcere dovesse rappresentare l’unica<br />

forma di sanzione dei delitti, nella forma brutale in cui era praticata, come “vendetta<br />

sociale”.<br />

Si aprì così la strada a concezioni tese al recupero dei condannati, al loro trattamento<br />

individualizzato, alla flessibilità delle pene, alle misure alternative al carcere.<br />

Veniva così superata la pretesa di uniformità e penosità <strong>della</strong> detenzione che l’illuminismo<br />

aveva voluto, anche in chiave garantistica. Bentham aveva raccomandato<br />

che l’ultimo periodo del soggiorno in carcere fosse “segnato da una dieta di penitenza:<br />

la solitudine, le tenebre, il pane dell’amarezza”, perché “è necessario che l’ultima<br />

impressione sia di tristezza e di dolore”.<br />

Le nuove concezioni sulla flessibilità e gradualità del trattamento produssero precisi<br />

modelli, come quello definito “irlandese” che scandiva il trattamento stesso in più<br />

fasi successive (isolamento, lavoro, vita in comune, prova per detenuti modello, liberazione<br />

condizionale).<br />

Ma questi orientamenti non si consolidavano in norme né tantomeno in consistenti<br />

pratiche conseguenti. Vennero di fatto “superate” dai principali orientamenti<br />

penitenziari, a cavallo fra ’800 e ’900. La scuola classica, di tradizione liberale, dopo<br />

aver tutelato i diritti delle persone, divenne più sensibile alla conservazione di quelli<br />

costituiti; quella positiva o antropologica tendeva soprattutto a difendere la società<br />

contro il “pericolo” fatalmente ricorrente dei malfattori “per natura”, in chiave deterministica;<br />

la scuola tecnico-giuridica, che sostituì le precedenti, nel perseguire soprattutto<br />

il formalismo e l’autonomia del diritto e <strong>della</strong> sua pratica, ostacolò sistematicamente<br />

le tendenze gradualistiche, processuali, anche nel settore penitenziario.<br />

Questa tendenza venne accentuandosi, trovando la massima espansione, tra gli<br />

anni ’20 e ’30, con il rafforzamento delle disposizioni a tutela dello Stato persona e<br />

l’attenuazione delle garanzie individuali.<br />

La Costituzione repubblicana, con l’affermare l’esigenza di umanità <strong>della</strong> pena e<br />

il prescriverne finalità rieducative (art. 27), recuperava la carica positiva, quindi, di un<br />

ampio dibattito internazionale dell’800, indicando la necessità di un suo sbocco normativo<br />

e pratico, teso comunque al rispetto per l’individuo e al suo recupero sociale.<br />

Su questa base fu possibile la formulazione, nei decenni successivi, di una serie di<br />

domande nuove, di contestazioni anche radicali del sistema carcerario. Filoni culturali<br />

autorevoli si chiesero perché nella sanzione penale dovesse necessariamente esser contenuta,<br />

oltre che la difesa sociale, anche l’inflizione di una sofferenza, o perché,<br />

comunque, la detenzione dovesse essere praticamente l’unico rimedio contro la<br />

devianza. Non sono mancati, soprattutto nel contesto internazionale, movimenti e<br />

voci di teorici che proponevano l’abolizione del carcere, definito istituzione totale<br />

repressiva, come i manicomi.<br />

Di fatto, però, la dottrina prevalente e l’esperienza pratica hanno continuato a<br />

considerare la pena carceraria come lo strumento essenziale, caratterizzante, del siste-<br />

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