la riflessione contro tra più elementi di rappresentazione, ditemi voi se l’idea di realtà di chi conosce più cose e in più modi diversi sia meno o più realistica di chi ne conosce meno, di cose, e in un minor numero di modi. Muoverci nella direzione di ‘concettualizzare le tecnologie ci dovrebbe aiutare, almeno questo vi auguro, e mi auguro, a tenere desto quel che un po’ tutti chiamiamo lo ‘spirito critico’, anche se poi intendiamo questa entità in modi totalmente diversi. Tanto più dovrebbe risultare necessaria questa azione, quanto più <strong>il</strong> mondo, esterno e interno a noi, si fa più complicato e indecifrab<strong>il</strong>e. Queste considerazioni, com’è ovvio, le sto facendo anche in relazione al dramma collettivo che stiamo tutti vivendo dal giorno dell’attacco alle Torri di New York. Globalizzazione comunicativa e iper-multi-anarco-medialità sembrano essere due caratteristiche forti di questa tragica, grandiosa e opaca ‘messa in scena’. Stiamo infatti andando ben al di là dei confini della ‘documentazione o della ‘guerra in diretta’. I media non si limitano a farci assistere, ci stanno portando la guerra in casa (ma anche elementi di pace, fortunatamente!). Ognuno di noi vive a pezzi l’insieme magmatico di questa realtà, se ne fa delle rappresentazioni, se la cuce a suo modo, ut<strong>il</strong>izzando <strong>il</strong> megapuzzle delle rappresentazioni collettive fornitoci dal sistema dei media, ma usando anche la megacornice che questo sistema comunque ci assicura. In questo groviglio, in questo reticolo tutto si tiene, tutto interagisce con e rimbalza su tutto: i grandi simboli e i grandi sentimenti, i fatti collettivi e i loro risvolti umani, la necessità dei casi e la casualità degli ordinamenti necessari; tutto è rappresentazione ma anche presentazione e presenza, tutto è realtà solo in quanto è molteplicità, è gioco (mi si perdoni l’espressione!) di rappresentazioni. Cosa sarebbe, chiediamoci, questo lacerante grumo di esperienza di una guerra lontana e vicina nello stesso tempo, locale e globale, loro e nostra, se avessimo a disposizione un solo codice, una sola risorsa di presentazione del mondo e della nostra presenza in esso? Se dunque l’angoscia per una guerra esterna e interna trova modi di contenimento è perché possiamo vedere e possiamo vivere questa ‘cosa’ in vari modi, da diverse angolazioni e prospettive, è perché in tutto ciò ci è riservata comunque dossier didascalie 62 una parte attiva, che è proprio quella che affida a noi (alla nostra parte cosciente ma anche a quella inconscia) <strong>il</strong> compito di istituire collegamenti, di integrare, di predisporre tessuti (testi) di conoscenza e di esperienza. E dunque se non soccombiamo è perché <strong>il</strong> teatro dei media ci offre una grande occasione per problematizzare, e dunque per sfuggire al ricatto di fatti e giudizi dati una volta per tutte. 5. 5. Vengo, Vengo, Vengo, Vengo, Vengo, a a a a a questo questo questo questo questo <strong>punto</strong>, <strong>punto</strong>, <strong>punto</strong>, <strong>punto</strong>, <strong>punto</strong>, al al al al al risvolto risvolto risvolto risvolto risvolto pedagogicopedagogicopedagogico pedagogico pedagogico e e e e e scolastico scolastico scolastico scolastico scolastico del del del del del ragionamenragionamenragionamenragionamenragionamen- to to to to to che ho fin qui sv<strong>il</strong>uppato. E sarò sintetico, considerato che chi abbia seguito la linea di ragionamento proposta fin qui non dovrebbe incontrare difficoltà alcuna nel prolungarla fin dentro <strong>il</strong> contesto educativo. Mi è capitato più volte (e soprattutto nei testi citati precedentemente) di parlare della scuola (e dell’università) che conosciamo e ancora pratichiamo, quella configurata in forma di libro, come di una scuola monomediale. Non è così, o almeno adesso non mi sembra più che una tale attribuzione sia adeguata. Preferisco parlare, ora, di scuola a-mediale, cioè di una scuola che adotta sì <strong>il</strong> formato del libro, anzi usa nient’altro che <strong>il</strong> libro, che dà a se stessa e ai saperi che ospita la configurazione di libro, ma che poi nasconde (a se stessa e al mondo) questa sua scelta, e quindi si autopropone come luogo di irradiazione del sapere tout court, non del sapere mediato da una tecnologia e dalla sua forma. È questa stessa la scuola che continua a fare resistenza al computer, o che, se decide o è costretta a tollerare la novità, lo fa proponendosi di addomesticare la bestia, cioè trattando <strong>il</strong> computer alla stregua di un libro o chiudendolo nella gabbia del ‘laboratorio’. Perché lo fa? Per autoconservazione. Mi sembra ovvio. Perché, se cedesse su questo <strong>punto</strong> cadrebbe buona parte della sua identità storica e attuale, verrebbe allo scoperto l’autoaccecamento di cui è causa e ad un tempo vittima, si troverebbe costretta a riconoscere l’ipocrisia sottostante all’idea che sia possib<strong>il</strong>e riprodurre e irradiare contenuti ‘allo stato naturale. Perché, credo di averlo espresso in termini sufficientemente chiari, dovrebbe ammettere (a se stessa e al mondo) che <strong>il</strong> suo è un sapere mediato, è una delle possib<strong>il</strong>i configurazioni di sapere media- to, può darsi o addirittura è certo che sia la più efficace, economica, vantaggiosa, ma è pur sempre ‘una’ configurazione al cospetto di ‘altre possib<strong>il</strong>i. Entrando a scuola (ma entrandoci bene, per quello che è e sa fare, per la forma epistemologica che gli è propria) <strong>il</strong> computer produrrebbe dunque un primo effetto di disincantamento, per <strong>il</strong> fatto di dare visib<strong>il</strong>ità di forma alla forma del libro, e poi uno che chiamerei di ‘ispessimento epistemologico’, consistente nell’aprire nuove prospettive di conoscenza/esperienza. Insomma, nel fare ‘sistema’, seppur minimo (ma in un qualche modo bisogna pur cominciare) aprirebbe nuove vie e farebbe capire che quelle precedentemente battute, che potranno/dovranno essere mantenute, erano anch’esse delle vie, per quanto di forma differente: non erano la terra. Ma consentirebbe anche la legittimazione scolastica di intelligenze fin qui considerate poco degne di un tale riconoscimento, quelle non-accademiche o anti-accademiche che però <strong>il</strong> mondo d’oggi sta sempre più valorizzando (e riscoprendo). Alludo alle forme dell’intelligenza concreta; la vulgata scolastica della teoria piagetiana le vorrebbe scomparse fin dai primi vagiti dell’intelligenza formale, e invece governano molta parte delle attività e dei pensieri di noi adulti: la pratica manuale, ovviamente, ma anche l’arte, <strong>il</strong> gioco, <strong>il</strong> buon senso, <strong>il</strong> corpo, l’affettività, insomma tutti gli ambiti entro i quali intuizione, globalità, immersione, reticolarità, connettività, simulazione contribuiscono a concretizzare un paradigma di conoscenza/esperienza diverso ma non alternativo a quello segnato da analisi, scomposizione, astrazione, chiusura. Lo si potrebbe affermare con una formula. Adottando <strong>il</strong> computer, la scuola fa sistema: salva <strong>il</strong> libro, si salva dal libro, fa testo (ovviamente, nel senso di tessuto).
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