Giunta al<strong>la</strong> terza edizione, <strong>la</strong> manifestazione cinematografica del<strong>la</strong> capitale, ribattezzata da “Festa” a “Festival” dal neo-direttore Gian Luigi Rondi, è apparsa un po’ sotto tono rispetto alle <strong>due</strong> precedenti. Sconta probabilmente, come d’altra parte <strong>la</strong> Mostra di Venezia, il terremoto mondiale del settore conseguente allo sciopero degli sceneggiatori USA. Ma, con tutta probabilità, anche dell’inevitabile sbandamento dovuto al cambio di vertice conseguente al<strong>la</strong> elezione a sindaco di Alemanno che ha programmaticamente preteso una soluzione di continuità con <strong>la</strong> precedente gestione Veltroni-Bettini. Il giudizio sul<strong>la</strong> direzione del decano del cinema Rondi è da rimandare al<strong>la</strong> prossima edizione, avendone assunto le redini quando <strong>la</strong> quasi totalità delle scelte era stata già fatta dallo staff del<strong>la</strong> precedente gestione. Ma di certo è apparso subito sostanzialmente fallito l’obiettivo di fare del<strong>la</strong> kermesse una vetrina internazionale delle produzione cinematografica italiana. Se si voleva realizzare un match Italia contro tutti, è andata a finire come era facile prevedere: resto del mondo batte Italia <strong>due</strong> a zero. D’altra parte un festival internazionale che si rispetti, seleziona i film migliori disponibili in quel momento, indipendentemente dal<strong>la</strong> nazionalità. I film italiani in concorso hanno infatti sostanzialmente deluso. Sin dal film d’apertura, “L’Uomo che Ama”, di Maria Sole Tognazzi. Che, pur potendo contare su eccellenti interpretazioni, non ha lo spessore del film di apertura di un grande festival. Non del tutto convincenti anche “Il sangue dei vinti” di Michele Soavi, “Il passato è una terra straniera” di Daniele Vicari e “Ga<strong>la</strong>ntuomini” di Edoardo Winspeare, che ha però, meritatamente, conseguito l’unico alloro al cinema nostrano, il premio per migliore attrice a Donatel<strong>la</strong> Finocchiaro, veramente strepitosa. Qualcosa in più, almeno in termini di emozioni, ha saputo rega<strong>la</strong>re il film di chiusura, “L’Ultimo Pulcinel<strong>la</strong>”, intenso e crepusco<strong>la</strong>re, di Maurizio Scaparro, con un grande Massimo Ranieri. Paradossalmente, il miglior film italiano visto al festival, “Si può fare”, di Giulio Manfredonia, è stato posto dai selezionatori fuori concorso, per motivi del tutto incomprensibili. Si tratta infatti di un film divertentissimo. Con un grande ritmo da commedia bril<strong>la</strong>nte. Battute fulminanti, gag irresistibili. Ma anche con un sapiente dosaggio di momenti agro dolci, che affrontano temi alti, forti, ma trattati in modo lieve, che suscitano riflessione e discussione. I premi maggiori <strong>sono</strong> andati a <strong>due</strong> film di guerra, sebbene di stile e linguaggi completamente diversi. Il Marco Aurelio d’oro attribuito dal pubblico, con votazione elettronica all’uscita dalle proiezioni (interessante e positiva novità di questa edizione), è andato a “Resolution 819”, co-produzione franco-po<strong>la</strong>cca-italiana, di Giacomo Battiato. Una ricostruzione toccante e vibrante di una delle più terrificanti efferatezze avvenute di recente alle nostre porte, l’eccidio di Srebrenica che ha visto <strong>la</strong> brutale uccisione, con occultamenti di cadaveri, di 8.000 civili musulma- UNO SGUARDO CRITICO AI FILM a cura di Laura Ferretti & Catello Masullo 11 PASSEGGIANDO TRA I FESTIVALS ni da parte delle truppe serbe. Il Marco Aurelio d’oro del<strong>la</strong> critica è andato invece a “Opium War”, dell’afgano Siddik Barmak, di co-produzione afgana, giapponese, coreana e francese. Film d’autore, rigoroso, antispettaco<strong>la</strong>re, che offre uno spaccato inedito delle remote regioni del martoriato Afganistan e volti indimenticabili, da copertina del National Geographic. Il premio per miglior attore è andato a Bohdan Stupka, protagonista di “Il cuore in mano”, sorprendente commedia bril<strong>la</strong>nte di Krzysztof Zanussi. Le scelte effettuate dalle giurie dei giovanissimi per i film del<strong>la</strong> sezione Alice, uno dei fiori all’occhiello del Festival di Roma, <strong>sono</strong> state ancora una volta ocu<strong>la</strong>tissime e competenti. I bambini di età compresa tra 8 e 12 anni hanno premiato il franco-belga-canadese “Magique!”, di Philippe Muyl, tenero, toccante e, per l’appunto, “magico” film per piccini e per adulti. I ragazzi di 13-17 anni hanno premiato l’inglese “Summer”, di Kenneth Glenaan, film splendido, intenso, toccante. Come in ogni festival che si rispetti, non <strong>sono</strong> mancati i buoni film. Ci piace segna<strong>la</strong>re il film ad episodi, di grande spessore morale ed impegno civile “8”, sugli otto obiettivi del Millennio (di Wim Wenders, Mira Nair, Gabriel Garcia Bernal, Jane Campion, Gaspar Noé, Jan Kounen, Abderrahmane Sissako, Gus van Sant), <strong>la</strong> gustosa commedia francese “Parlez-moi de <strong>la</strong> pluie” di Agnès Jaoui, il sontuoso “The Duchess” di Saul Dibb, il poderoso “La banda Baader Meinhof” di Uli Edel, e ancora i <strong>due</strong> film che hanno meritato una menzione speciale, il multi-etnico, almodovariano “Aide-toi et le ciel t’aidera” di Francois Dupeyron (vincitore anche del premio “Farfal<strong>la</strong> d’oro Agiscuo<strong>la</strong>”) ed il visionario, estetizzante “A corte do norte” del portoghese Joao Botelho. Ma <strong>due</strong> <strong>sono</strong> stati gli acuti, che hanno sfiorato il capo<strong>la</strong>voro assoluto, pur non ricevendo, inspiegabilmente, alcun premio né menzione. Il primo è “Appaloosa” di Ed Harris, western c<strong>la</strong>ssico, ma con linguaggio moderno, con dialoghi spassosissimi (mai riso così tanto per un western), cura maniacale dei dettagli, interpretazioni strepitose, a cominciare dallo stesso autore Ed Harris, misurato, ironico, impagabile, un ennesimo capo<strong>la</strong>voro <strong>la</strong> recitazione di Viggo Mortensen, re del<strong>la</strong> sottrazione, una gustosamente darwiniana prova di Renée Zellweger, un grande il vi<strong>la</strong>in di Jeremy Irons. Il Secondo è “Easy Virtue”, di Stephan Elliott, trasposizione cinematografica dell’opera teatrale omonima di Noel Coward, scritta nel 1924, quando l’autore aveva solo 23 anni. Bril<strong>la</strong>nte, scoppiettante, spumeggiante. Dialoghi affi<strong>la</strong>tissimi. Battute fulminanti. Sitcom esi<strong>la</strong>ranti. Sarcastico, graffiante, dissacrante, a tratti deliziosamente irriverente. Godibilissimo. Con una confezione impeccabile ed attori strepitosi. Ed il Cinecircolo Romano, nel<strong>la</strong> sua costante ricerca del<strong>la</strong> alta qualità cinematografica, non poteva farsi sfuggire queste <strong>due</strong> perle, che saranno i <strong>due</strong> film di programma <strong>2008</strong>-<strong>2009</strong> provenienti dal Festival di Roma, e saranno proiettati il 21 e 22 maggio ed il 4 e 5 giugno <strong>2009</strong>.
PASSEGGIANDO TRA I FESTIVALS Andrea Mo<strong>la</strong>ioli (La ragazza del <strong>la</strong>go), Fausto Brizzi (campione uscente), Francesca Cima (per Apnea di Roberto Dordit). Giuseppe Battiston (La giusta distanza). Da sinistra: Murchio, Cima, Brizzi, Lodovini, Battiston, Mo<strong>la</strong>ioli, Co<strong>la</strong>ngeli. 12 Valentina Lodovini (La giusta distanza). Il pubblico in p<strong>la</strong>tea.
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