2 Il ruggito del coniglio Storia e false credenze sulla tradizione del coniglio a tavola. Uno sguardo al consumo di questa carne bianca Quando in Italia si parla di Vicenza e di coniglio nessuno, dico nessuno, non sottolinea che da noi si scambia, a volte fraudolentemente, il gatto per il coniglio e, per di più, ne siamo ghiotti. È una nomea che non ci tireremo più via e che dobbiamo accettare. Che poi il gatto venisse mangiato ovunque, in Italia, è un’altra cosa: in Emilia la chiamano la “levra d’i copp”, cioè la “lepre dei tetti”. Ed era mangiato già nel 1300: il Savonarola, medico padovano, scrisse di non mangiare il cervello del gatto nero per non impazzire. E, di più, il termine coniglio non evoca mai concetti di validità, anche fuori dal mondo della gastronomia. “Sei un coniglio” si dice di un pavido, di un fifone, “è una coniglia” di una donna troppe volte gravida, e anche nell’arte amatoria a chi non dà prova di resistenza nelle tenzoni amorose
si “fa l’amore come i conigli”. Insomma sono poche le lodi a questo lepride comparso sulla terra da oltre 1 milione d’anni, addomesticato di recente, che dalla sua patria d’origine, l’Africa Settentrionale sarebbe poi passato in Spagna, moltiplicandosi, come è noto, con sorprendente facilità. Tracce se ne hanno dagli Egiziani in poi: un papiro rappresenta un uomo che tiene per le orecchie un coniglio, i Fenici lo usavano normalmente, come i Romani. Ma la storia moderna inizia nel XIV secolo quando veneziani, genovesi, portoghesi e spagnoli, organizzate le prime spedizioni al di là delle colonne d’Ercole tentarono, in diverse occasioni, di diffonderlo nelle terre che andavano via via incontrando. La domesticazione fu merito dei monaci francesi i quali ne consentirono, a volte inconsapevolmente, la diffusione con grande vantaggio delle popolazioni più povere che impararono ad allevarli vicino alle case. È stato compagno del contadino da secoli a cui ha dato oltre che la carne anche la pelle. Chi non ricorda le pellicce di lapin, la lana d’angora? Era talmente usata la pelle che fi no agli anni ‘50 d’inverno si facevano, sui manubri delle biciclette, delle manopole, legate col fi l di ferro e con il pelo dentro, per tener calde le mani mentre si pedalava. C’era un motivo perché fosse così apprezzato nelle campagne. L’allevamento non richiedeva molto spazio: solo una gabbia sollevata da terra (per paura dei topi che mangiavano il mangime ed aggredivano i coniglietti) sotto un portico o in un angolo della stalla. I conigli stavano separati (solo un giorno o due si univano conigli di sesso diverso) e poi, dopo 30 giorni nascevano 7 o 8 piccoli. Li crescevano fi no ad 1Kg e mezzo e poi li dividevano per non farli accoppiare. Li nutrivano di erba fresca, non bagnata e lasciata ad appassire qualche giorno in modo che le erbe velenose, come il ranuncolo, perdessero effi cacia. Il coniglio assorbe molto, nel suo sapore, la natura delle erbe che mangia, fi no a diventare amaro se viene utilizzato, ad esempio, il fi eno greco e l’erba medica. Andava bene anche il fi eno, si faceva un pastone con semola, sorgo macinato e pane raffermo bagnato. Chi non aveva campi mandava i bambini lungo i fossati a raccogliere l’erba. L’Artusi, da sempre critico feroce per quello che riguarda alcuni tipi di carne (ricordiamo che detestava il baccalà) è qui più tollerante. Sentite: “È una carne di non molta sostanza e di poco sapore al che si può supplire con i condimenti; ma è tutt’altro che cattiva e non ha un odore disgustoso anzi è sana e non indigesta come quella dell’agnello”. Qualche ragione l’aveva, ai suoi tempi, perché il coniglio, come dicevo, trasferisce più di qualsiasi altro animale il sapore di ciò che mangia nel sapore della carne. Ma ora non è più così. Tempi passati: ora il coniglio è allevato con metodi modernissimi ed è prodotto di rilevante importanza. In Europa siamo il primo paese per produzione, con il 44%, seguiti dalla Francia con il 25% e dalla Spagna con il 17%, tutti gli altri paesi coprono il 14%. E ciò che è ancora più importante è che il Veneto è il leader italiano, con il 42% della produzione nazionale, il che vuol dire quasi 20 milioni di capi all’anno. La produzione veneta è certifi cata nella qualità, tanto che una parte di essa viene commercializzata col marchio di garanzia. Il coniglio ha bisogno di circa 90 giorni d’allevamento (contro i 38 del pollo) ed è carne ricca di proteine ed aminoacidi, ha un bassissimo tasso di colesterolo, è povera di sodio ed è facilmente digeribile. Se è vero che l’alta ristorazione ancora non lo utilizza molto (ma vi sono stupende ricette della Mirella Cantarelli, dell’Enoteca Pinchiorri, di Nino Bergese, di qualche anno fa), si ha invece un bella serie di ricette casalinghe in ogni regione d’Italia. Regina, in questo campo è la Liguria, dove, proprio per la natura del terreno montano che impedisce i vasti allevamenti, il coniglio è da sempre molto utilizzato. Ad Ischia, in Campania, vi è un modo per allevarlo praticamente allo stato semibrado, permettendo all’animale di vivere in grotte di tufo ed alimentarsi ad erba. Viene chiamato coniglio di fossa e ne parleremo nel proseguo della rivista. Anche in Sicilia l’uso del coniglio è frequente ed alcune ricette lo vedono unito al cioccolato o allo zafferano, in un gusto che trae dagli arabi la propria storia. Incredibilmente negli Usa il consumo di coniglio è praticamente a zero: non è un piatto che viene preparato. Il coniglietto è, per loro, l’animale simbolo della Pasqua. In compenso sono loro ad aver inventato le “conigliette” di Playboy. Non si mangiano ma sono, pur sempre, bocconcini godibili! Alfredo Pelle 3