interpretazioni mitologiche di fenomeni naturali - Centro ...
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L’uomo non si sottrae a questa orgia sessuale ed il suo agire non <strong>di</strong>fferisce da<br />
quello <strong>di</strong> qualsiasi altro animale come è evidente nella poesia L’Istinto in Lavorare<br />
stanca: 9 «...L’uomo vecchio ricorda una volta <strong>di</strong> giorno / che l’ha fatta da cane in un<br />
campo <strong>di</strong> grano. / Non sa più con che cagna, ma ricorda il gran sole / e il sudore e la<br />
voglia <strong>di</strong> non smettere mai». L’uomo e la donna in questa poesia, nell’atto della<br />
copula sono paragonati a due cani in preda all’istinto. C’è una sorta <strong>di</strong><br />
‘imbestiamento’ dei tratti umani sia fisico che morale. L’istinto è una poesia del<br />
ricordo: è l’uomo vecchio, che sull’uscio della casa in «un tiepido sole» osservando<br />
due cani nell’atto dell’accoppiamento sulla piazza del paese ricorda l’estate della sua<br />
vita quando anche lui poteva dar libero sfogo alle passioni. Esiste un parallelo tra la<br />
stagione della vita e quella della natura. L’uomo vecchio si trova in un sole<br />
presumibilmente autunnale, mentre il suo ricordo va a circostanze esplicitamente<br />
estive.<br />
Il campo <strong>di</strong> grano è teatro dell’incontro tra i due amanti ed è al tempo stesso<br />
simbolo <strong>di</strong> fertilità ed abbondanza (riferimento al campo <strong>di</strong> battaglia tra Litierse e<br />
Eracle nel <strong>di</strong>alogo l’Ospite in Dialoghi con Leucò).<br />
E’ singolare notare, che in Pavese per l’uomo il rendersi simile alla bestia è un<br />
processo graduale, mentre la donna è identificata imme<strong>di</strong>atamente con l’animale.<br />
Essa più dell’uomo è portatrice delle forze più nascoste presenti in natura. E’ quin<strong>di</strong><br />
presente una identificazione molto forte tra il corpo della donna e la natura nella suo<br />
essere selvaggio e primitivo. Tra le due infatti, esiste una comune ricchezza <strong>di</strong> linfe e<br />
<strong>di</strong> succhi. In questa poesia l’uomo viene assimilato al cane, che per Pavese è la<br />
creatura che per i suoi sensi particolarmente sviluppati.<br />
Il momento meri<strong>di</strong>ano non fa da sfondo unicamente a situazioni in cui prevale<br />
l’azione. In Paesi Tuoi 10 ad esempio si trova un passo in cui Berto e Gisella sono<br />
vinti da un senso <strong>di</strong> stanchezza.<br />
Il momento in cui il sole raggiunge lo zenit sembra coincidere con l’oscurità della<br />
mezzanotte. In questo contesto ricompare il termine ‘conca’ non più come metafora<br />
uterina o luogo consacrato ad una trasformazione rituale dell’uomo-cultura in uomoanimale,<br />
ma come ‘talamo nuziale’. L’atmosfera è decisamente soffusa e sensuale: il<br />
motivo sessuale nel suo crudo realismo viene superato da una sorta <strong>di</strong> pudore, che<br />
impe<strong>di</strong>sce ai due <strong>di</strong> spogliarsi e <strong>di</strong> offrire i loro corpi nu<strong>di</strong> alla natura ed all’istinto.<br />
Compare, come in altri passi, l’elemento acqua legato alla descrizione meri<strong>di</strong>ana,<br />
che deve essere ricollegato alle facoltà fecondatrici delle sorgenti che insieme a<br />
quelle del sole si esercitano col favore del sonno <strong>di</strong> mezzogiorno; il tema manifesta<br />
dunque un nuovo sviluppo delle potenzialità magiche dell’ora <strong>di</strong> mezzogiorno.<br />
Ancora una volta si ha l’impressione <strong>di</strong> seguire una concatenazione coerente <strong>di</strong> natura<br />
specificamente mitologica. Dalla lettura <strong>di</strong> questo brano si evince come il meriggio<br />
possa essere foriero oltre che <strong>di</strong> furore anche <strong>di</strong> stati emotivi come l’acci<strong>di</strong>a che ha in<br />
9 Pavese 1962, p. 120<br />
10 «…Eravamo in una conca che le foglie toccavano l’erba e faceva quasi buio tanto era il sole sulle piante. Ascoltando<br />
si sentiva il rumore dell’acqua sotto il sole “qui nessuno ci vede” <strong>di</strong>cevo “svestiamoci, an<strong>di</strong>amo nell’acqua”. Lei senza<br />
levare la testa, mi teneva le mani e <strong>di</strong>ceva “ci sono le cicale che ci vedono non senti?” “hai vergogna delle cicale o <strong>di</strong><br />
me?” Allora si lasciava carezzare, fiacchi come eravamo, e <strong>di</strong>ceva delle cose piano, e chiudeva gli occhi e poco alla<br />
volta il sole correndo sull’erba le venne cadere sulle gambe fino alla vita...» (Pavese 1997, p. 170)<br />
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