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Bufanda

Considerate Bufanda come una sciarpa metaforica. Quindici illustrazioni per quindici racconti o, specularmente, quindici racconti per quindici illustrazioni: un intreccio variegato di trama e ordito, inorganico, forse sbilenco e inelegante, ma di certo non casuale. Una sorta di sciarpa della nonna sferruzzata. Una sciarpa da portarsi sempre appresso, valido rimedio contro il fastidioso vento gelido che sferzerà il vostro umore. E, proprio come una sciarpa, assorbirà odori, profumi, pensieri. Ogni volta che la prenderete in mano sarà, sì, tanto familiare, ma sempre diversa, sfumata, ricca di sensazioni e particolari che magari non avevate notato prima.

Considerate Bufanda come una sciarpa metaforica. Quindici illustrazioni per quindici racconti o, specularmente, quindici racconti per quindici illustrazioni: un intreccio variegato di trama e ordito, inorganico, forse sbilenco e inelegante, ma di certo non casuale. Una sorta di sciarpa della nonna sferruzzata. Una sciarpa da portarsi sempre appresso, valido rimedio contro il fastidioso vento gelido che sferzerà il vostro umore. E, proprio come una sciarpa, assorbirà odori, profumi, pensieri. Ogni volta che la prenderete in mano sarà, sì, tanto familiare, ma sempre diversa, sfumata, ricca di sensazioni e particolari che magari non avevate notato prima.

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dal giorno in cui, dieci anni prima, ne era uscito, piedi in avanti, il

benemerito Ignazio Diotiguardi, detto ‘u Zu Gnazio, la cui foto faceva

bella mostra di sé in una cornice d’argento sul comodino della

vedova.

Zu Gnazio era un omone dall’animo sensibile, morto per lo

shock di aver visto sua moglie nuda la prima notte di nozze.Da quel

momento non si era più ripreso e dopo vent’anni di tribolazioni il

suo cuore non aveva retto.Tanto fu lo stupore del de cuius nel vedere

un altro uomo varcare la soglia della stanza della consorte che

la cornice con tutta la foto rovinò rumorosamente sul pavimento

senza causa apparente.

«Cosa tinta è» mormorò la vedova sturciuta, vedendo nel fatto

un cattivo presagio.

«Sciocchezze!» esclamò lo Scalise, prendendo posizione dietro

la finestra.

In quel mentre, all’imbocco della strada fece la sua apparizione

il maresciallo dei Carabinieri Salvo Lo Presti insieme all’appuntato

Gargiulo.

Aveva l’espressione dei momenti peggiori. Divisa inamidata, sopracciglio

folto di ordinanza,sapientemente corrucciato,labbra sottili,

espressione dura, andatura militaresca adatta all’occasione.

In realtà era infuriato nero e mentalmente santiava contro tutti

i santi e pure contro il giudice che aveva avuto l’insana idea di

spedirlo ad arrestare un pennuto, mettendolo in ridicolo davanti al

paese intero. Giunto che fu davanti alla porta del Sarcinello, tuppuliò

così forte da scorticarsi le nocche.

«Carabinieri! Aprite immediatamente!» urlò il Gargiulo.

La porta si aprì dopo qualche istante. ‘U Pitturi non aveva l’intenzione

di fare resistenza.

«Unnè?» chiese il maresciallo, alludendo al gallo Titino.

«E io chinni sacciu?» Rispose il Sarcinello. Si guardarono torvi.

Intanto l’appuntato Gargiulo si mise a cercare dentro e fuori la

casa, ma del gallo Titino neanche l’ombra. Nel frattempo in strada si

era formato un capannello di persone, e ognuno diceva la sua.

«Sinni fuìu!»

«Macari iddu l’ammucciò.»

Intanto il tempo passava e il gallo non si trovava.

«Cosa tinta è» continuava a mormorare la vedova Diotiguardi, e

non si capiva se alludesse alla cornice del marito a cui si era frantumato

il vetro, o al pennuto latitante.

All’imbrunire la forza pubblica decise di sospendere le ricerche

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