Bufanda
Considerate Bufanda come una sciarpa metaforica. Quindici illustrazioni per quindici racconti o, specularmente, quindici racconti per quindici illustrazioni: un intreccio variegato di trama e ordito, inorganico, forse sbilenco e inelegante, ma di certo non casuale. Una sorta di sciarpa della nonna sferruzzata. Una sciarpa da portarsi sempre appresso, valido rimedio contro il fastidioso vento gelido che sferzerà il vostro umore. E, proprio come una sciarpa, assorbirà odori, profumi, pensieri. Ogni volta che la prenderete in mano sarà, sì, tanto familiare, ma sempre diversa, sfumata, ricca di sensazioni e particolari che magari non avevate notato prima.
Considerate Bufanda come una sciarpa metaforica. Quindici illustrazioni per quindici racconti o, specularmente, quindici racconti per quindici illustrazioni: un intreccio variegato di trama e ordito, inorganico, forse sbilenco e inelegante, ma di certo non casuale. Una sorta di sciarpa della nonna sferruzzata. Una sciarpa da portarsi sempre appresso, valido rimedio contro il fastidioso vento gelido che sferzerà il vostro umore. E, proprio come una sciarpa, assorbirà odori, profumi, pensieri. Ogni volta che la prenderete in mano sarà, sì, tanto familiare, ma sempre diversa, sfumata, ricca di sensazioni e particolari che magari non avevate notato prima.
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rono. Basterebbe un contrattempo, m’inganno, un banale ritardo.
Un ostacolo improvviso, una qualunque posticipazione mi permetterebbe
di trovare la scappatoia che cerco. Avrei bisogno di più
tempo. Di maggiore tranquillità. Ma non c’è persona che non tema
il momento. Se davvero esiste, vi giuro, io non l’ho mai incontrata.
Scappano, i minuti scappano. Fuggono senza voltarsi indietro.
Mi volto io, con occhi nervosi guardo al mio passato. Non mi
comportavo diversamente, allora. Ricordo i tempi della scuola. All’ora
dell’interrogazione pregavo che capitasse un evento, fortuito
o meno, che rimandasse la prova. Che altri venissero chiamati al
mio posto, tipo Stefano Ferraguti, che era sempre preparato. Io pregavo,
continuamente. Se mi fosse andata bene avrei messo la testa a
posto. Finalmente mi sarei applicato. I propositi da libro Cuore svanivano
subito dopo, quando al secondo appello io ero ancora seduto
al mio banco. La tentazione del pallone era troppo forte e io ero
discolo già allora.
Tento un’impresa disperata per dare sollievo ai miei occhi infuocati.
Ne chiudo uno alla volta. Figurati se funziona! Quel che è
peggio è che non posso incolpare altri. Non più di tanto. Potrei
prendermela con il destino, magari, ma non servirebbe a niente. La
colpa è mia. Ho atteso troppo. Ci voleva un atto di coraggio. Dovevo
presentarmi spontaneamente quando non era troppo tardi. Potevo
cavarmela a minor prezzo. Invece io sono andato avanti per la
mia strada, trascinandomi il dolore appresso, finché quel dolore è
diventato il mio padrone. È stato lui a condizionare i miei ultimi
giorni.
Riaccendo la luce.La spengo subito.Non mi è mai piaciuta quella
lampadina arancione. Anzi, la detesto!
Nel mentre passano, i minuti passano. Impregnano il pigiama
che aderisce alla pelle. È una sensazione pruriginosa, un ulteriore
motivo di disagio. Chissà cosa prova un serpente quando rinnova
la muta? mi domando, in una sorta di delirio dettato dalla tensione.
Farnetico.
Facevano presto a dire: «Passerà. È questione di attimi» Lui aveva
sentenziato.Bastardo figlio di un cane! Aveva fissato giorno e ora.
In Lui nessun ripensamento. Aveva deciso. Punto. In un certo senso
ammiravo la sua fermezza, la sua capacità di imporsi, di decidere
la sorte altrui. Io avrei pagato. Sa-la-ta-men-te. Non è nemmeno
tutta colpa sua. Ognuno nella società ha il proprio ruolo. È il mio,
adesso, che non mi piace.
Certo, poteva essere meno sadico. Il classico uomo senza mac-
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