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Bufanda

Considerate Bufanda come una sciarpa metaforica. Quindici illustrazioni per quindici racconti o, specularmente, quindici racconti per quindici illustrazioni: un intreccio variegato di trama e ordito, inorganico, forse sbilenco e inelegante, ma di certo non casuale. Una sorta di sciarpa della nonna sferruzzata. Una sciarpa da portarsi sempre appresso, valido rimedio contro il fastidioso vento gelido che sferzerà il vostro umore. E, proprio come una sciarpa, assorbirà odori, profumi, pensieri. Ogni volta che la prenderete in mano sarà, sì, tanto familiare, ma sempre diversa, sfumata, ricca di sensazioni e particolari che magari non avevate notato prima.

Considerate Bufanda come una sciarpa metaforica. Quindici illustrazioni per quindici racconti o, specularmente, quindici racconti per quindici illustrazioni: un intreccio variegato di trama e ordito, inorganico, forse sbilenco e inelegante, ma di certo non casuale. Una sorta di sciarpa della nonna sferruzzata. Una sciarpa da portarsi sempre appresso, valido rimedio contro il fastidioso vento gelido che sferzerà il vostro umore. E, proprio come una sciarpa, assorbirà odori, profumi, pensieri. Ogni volta che la prenderete in mano sarà, sì, tanto familiare, ma sempre diversa, sfumata, ricca di sensazioni e particolari che magari non avevate notato prima.

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«Ma io devo annegarci, mica farci il bagno!»

«Appunto, quando si annega è perché si beve parecchia acqua,

e io quell’acqua non la berrei neanche morto! Una persona come

lei, abituata a bere buon vino... Andiamo, dia retta a me: si trovi un

altro scopo nella vita, che so, faccia lo stilista rivoluzionario!»

Era pensoso. Forse l’avevo convinto.

Guardò l’acqua, poi guardò me.

«Lei ha ragione: quest’acqua è davvero zozza! Credo che per

adesso rinuncerò al suicidio e... sì, farò lo stilista. Prima però vorrei

mettere qualcosa sotto i denti, per esempio del gulasch, un tipico

piatto ungherese che non ho mai assaggiato. Oggi è stata una giornata

carica di emozioni e le emozioni mi fanno venire fame...»

Poi sfilò di tasca l’ennesima brioche.

«Un boccone?»

«Ma sì! Avevo proprio voglia di una brioche...»

L’uomo cominciò le difficili operazioni per trasbordare se stesso

al di qua della balaustra in modo da togliersi dal ciglio del ponte

che, stremato da tanto peso, crollò inesorabilmente. L’uomo precipitò

nel fiume generando schizzi talmente alti che persino io venni

completamente bagnato, come se in acqua fossero stati gettati almeno

dieci chili di tritolo. Annaspava biascicando che non voleva

morire, almeno non prima di aver assaggiato il gulasch. Io non riuscii

nemmeno a urlare per chiedere aiuto, perché avevo la bocca

occlusa dalla brioche, così le torbide acque e l’oscurità s’inghiottirono

quel povero disgraziato in un sol boccone.

Tornai a casa che era quasi l’alba. Diversamente da prima, avevo

una solida certezza: sapevo che genere di regalo fare a mia moglie

per il nostro anniversario. L’avrei portata al ristorante, a mangiare il

gulasch.

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