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Bufanda

Considerate Bufanda come una sciarpa metaforica. Quindici illustrazioni per quindici racconti o, specularmente, quindici racconti per quindici illustrazioni: un intreccio variegato di trama e ordito, inorganico, forse sbilenco e inelegante, ma di certo non casuale. Una sorta di sciarpa della nonna sferruzzata. Una sciarpa da portarsi sempre appresso, valido rimedio contro il fastidioso vento gelido che sferzerà il vostro umore. E, proprio come una sciarpa, assorbirà odori, profumi, pensieri. Ogni volta che la prenderete in mano sarà, sì, tanto familiare, ma sempre diversa, sfumata, ricca di sensazioni e particolari che magari non avevate notato prima.

Considerate Bufanda come una sciarpa metaforica. Quindici illustrazioni per quindici racconti o, specularmente, quindici racconti per quindici illustrazioni: un intreccio variegato di trama e ordito, inorganico, forse sbilenco e inelegante, ma di certo non casuale. Una sorta di sciarpa della nonna sferruzzata. Una sciarpa da portarsi sempre appresso, valido rimedio contro il fastidioso vento gelido che sferzerà il vostro umore. E, proprio come una sciarpa, assorbirà odori, profumi, pensieri. Ogni volta che la prenderete in mano sarà, sì, tanto familiare, ma sempre diversa, sfumata, ricca di sensazioni e particolari che magari non avevate notato prima.

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Svoltai in via Repubblica diretto verso casa. Mi fermai. Guardai

l’ora: le 3 e 39. Un pensiero: vuoi vedere che... Invertii la marcia.

Avvolta nella foschia, una sagoma scura percorreva con nervose

falcate la piazza deserta. Stringeva in mano qualcosa. Appoggiai la

bici lì vicino e mi comprai un pacchetto di sigarette all’automatico

dietro la statua. Poi m’avvicinai al tizio e gli chiesi da accendere.

«NON FUMO!» barrì.

«Scusa. Non volevo.»

«No, scusa tu. È che...» Pausa sofferta. «Che... che... che puttane!

Che le donne sono tutte puttane, ecco! PUTTANE!»

Inutile precisare che aveva in mano una foto di De André.

La infilò rapido in tasca.

«Perché, che ti è successo? Se non sono troppo indiscreto...»

Mi soppesò con lo sguardo. Aprì la bocca. La richiuse. La riaprì:

«Niente... lasciamo perdere... Non è che avresti una sigaretta?»

«Hai mica detto che non fumi?» e gliela allungai.Accesi la sua e

pure la mia. Inspirò.Tossì.

«Troie maledette! Tutte le donne!» ringhiò.

Annuii: «Eh, già, come darti torto? Ma non solo loro. Eh no. Credimi,

non solo loro...»

Non disse più nulla: continuava a camminare su e giù per la

piazza vuota fendendo la nebbia come un tergicristallo, scuotendo

il capo, fumando e tossendo.

«Beh... ciao.» Mi allontanai verso la bici fischiettando la melodia

de La ballata dell’amore cieco.

Mi sentì. Pochi secondi, poi: «Ehi, ehi!» disse.

Flapp, flappp. Rumore di passi sul lastricato bagnato. Salii lesto

in bici. Mi girai a guardarlo: correva verso di me. Mi issai sui pedali

e presi a mulinare più forte che potevo.

Il rumore dei piedi che sbattevano al suolo. La bici prendeva velocità.I

passi più vicini.Stava guadagnando terreno.Schiaffeggiò l’aria

diverse volte. Non riuscì ad afferrarmi per pochi centimetri.

«VIENI QUI! Grandissimo figlio di PUTTANAAAAAAAAAAAA!»

Il grido strozzato risuonò alto lungo la strada deserta, incanalandosi

veloce tra le mura dei palazzi, rimbalzando contro le saracinesche

dei negozi, le persiane serrate, gli usci chiusi, fino ad avvilupparmi

completamente con invisibili dita sonore.

Arrivai a casa madido di sudore. Erano le 4 e 12. Lacrimavo dal

ridere.Estemporaneamente,così come avevo cominciato,quel giorno

smisi per sempre di chattare. Ho fondati motivi per credere che

Raffaele Cervetto abbia fatto altrettanto.

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