ROSETTA_MAGAZINE_201303

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How would you describe the relationship
between national and world literature in
your country?
Come descriverebbe la relazione tra
letteratura nazionale e mondiale nel Suo
paese?
Let’s continue on the reflection we were
making about world literature.
The Italian market is said to be conditioned
by the fact that there are more Italians
writing than reading. Of course this is a
joke, but in reality, less of a joke than you
would care to believe.
Italians read too little. About 45% read
between 1 to 3 books a year, so-called
“strong readers” (12 or more books a year)
make up less than 14% of the population.
If you examine the shelves of the
bookshops you discover that at least 20%
of the books are translated into Italian from
other languages (the equivalent percentage
in the USA and U.K. is no higher than 4%).
So there should be very large internal
production indeed.
In fact, publishers prefer Italian writers
for the very simple reason that they are
cheaper. In terms of revenues, only very
few Italian authors may hope to reach the
number of copies sold by foreign authors,
since foreign literary rights are expensive
and publishers purchase only titles that
have a “sure” record of sales abroad.
But the number of these titles from the
national production(80% of all books
available)which achieve a circulation of
above 2000 copies is a well-kept secret;
since the average circulation is less than
4000 copies (including bestsellers) we may
deduce they are not many.
Apart from these figures, the real problem
of literature – in its native country or abroad,
in its own language or translated - is the
quality of the merchandise. In my opinion,
selection criteria have changed worldwide
and not for the best.
Continuiamo nella nostra riflessione sulla
letteratura mondiale.
Si dice che il mercato italiano sia condizionato
dal fatto che ci sono più italiani che scrivono
di quelli che leggono. È una battuta, ma meno
di quanto possiate pensare.
Gli italiani leggono troppo poco. Circa il 45%
legge da 1 a 3 libri all’anno, i cosiddetti “lettori
forti” (12 o più libri all’annno) sono meno del
14% del totale.
Se si dà un’occhiata agli scaffali delle
librerie si scopre che almeno il 20% dei
libri è tradotto in italiano da altre lingue (la
percentuale corrispondente per USA e U.K.
non supera il 4%).
È ovvio che ci debba essere una grande
produzione interna.
In effetti, gli editori preferiscono gli scrittori
italiani per la semplicissima ragione che sono
più a buon mercato. In termini di fatturato,
solo pochissimi autori italiani possono
sperare di arrivare allo stesso numero di
copie vendute dagli autori stranieri, perché i
diritti letterari esteri sono costosi e gli editori
acquistano solo i titoli che hanno già all’estero
dei numeri di vendita “sicuri”.
Ma quanti titoli dell’80% che deriva dalla
produzione interna raggiungano una
circolazione al di sopra delle 2000 copie
è un segreto ben custodito: visto che la
circolazione media si situa al di sotto delle
4000 copie (bestsellers inclusi) si può
ritenere che non siano molti.
Al di là di questi numeri, il vero problema
della letteratura – nel suo paese e/o lingua
o all’estero, nella lingua originale o tradotta
– è la qualità della produzione. A mio
avviso, i criteri di selezione sono cambiati in
tutto il mondo, e non per il meglio.
How would you describe the relationship
people in your country have with literature?
Come descriverebbe la relazione che la
gente ha con la letteratura nel Suo paese?
I have already answered part of this
question. However, I will take another
aspect into consideration.
At one time, books were strictly related
with the status of the reader: only cultivated
people owned them, libraries were a
privilege of the well-off; they projected
an aura of importance around the user.
Nowadays books (novels, biographies,
essays, detective stories, technical books or
whatever) are looked at by the majority as
consumer products, but there is always a
presumption of importance by the readers.
There is a joke about an Italian novel that
won two prestigious literary awards some
years ago, entitled “The solitude of prime
numbers”. It was said that you could
envisage yourself as being (and looking)
more intelligent than you actually were
by simply buying the book and walking
around with it under your arm, because few
people actually knew what prime numbers
were! So, I fear (with good reason) that
many people still consider reading more
a social activity than a way of improving
themselves, as it should be considered.
In modern terms, a fantastic cartoon on
Facebook shows a mother telling her son:
“It’s called reading. That’s how people
install new software in their own brain.”
Ho già risposto in parte a questa domanda.
Voglio però considerare un ulteriore
aspetto della questione.
Una volta, c’era una stretta relazione tra
i libri e lo status del lettore: solo persone
colte li possedevano, le biblioteche erano
un privilegio dei benestanti, ed essi
proiettavano un’aura di importanza sugli
utilizzatori.
Oggi i libri (romanzi, biografie, saggi,
polizieschi, letteratura tecnica, tutti
insomma) vengono considerati dalla
maggioranza beni di consumo, anche se
permane una presunzione di importanza
nei riguardi dei lettori.
Gira una battita su di un romanzo italiano
che ha vinto due importanti premi letterari
alcuni anno fa, intitolato “La solitudine
dei numeri primi”. Si diceva infatti che
uno poteva considerarsi (e sembrare) più
intelligente di quanto effettivamente fosse
solo comprandolo e passeggiando con
questo romanzo sotto il braccio, perché
solo poche persone sapevano cosa fossero
i numeri primi.
Temo quindi (con qualche ragione) che
molte persone considerino leggere
più un’attività sociale che un modo di
migliorare se stessi, come dovrebbe
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