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Spingo Taylor da parte e salgo le scale puntando alla camera dei suoi genitori. Mi raggiunge a metà scala, prendendomi per la maglia, e per poco non<br />
mi scaraventa in terra, ma io mi tengo stretta al corrimano e vado avanti, trascinandomela dietro.<br />
«Non puoi entrare così, Fee. Smettila di comportarti da pazza!».<br />
Arrivo davanti alla porta, la apro, ed eccolo lì, proprio come nella mia visione. Tranne che per il suo petto, che si alza e si abbassa. Sta solo dormendo.<br />
«Oh, Dio». Mi volto verso Taylor, che mi sta già portando di forza fuori dalla stanza. «Scusa… Io pensavo…». Ma quando rivolgo nuovamente lo<br />
sguardo a suo padre, vedo sul tappeto un flacone di medicine vuoto. Oltrepassando Taylor, entro nella stanza e mi accorgo che sul comodino ci sono altri<br />
tre flaconi, tutti vuoti.<br />
«Taylor», dico indicando i flaconi, «chiama un ambulanza». Mi avvicino al letto. «Signor Stevens, si svegli!». Lo scuoto. «Può sentirmi?».<br />
Nulla.<br />
Taylor è lì in piedi, impietrita. Mi precipito al telefono sull’altro comodino e chiamo il pronto intervento. Mentre spiego cos’è successo, Gabe entra nella<br />
stanza e prende Taylor fra le sue braccia. Lei a malapena se ne accorge, e continua a fissare suo padre con gli occhi sgranati.<br />
L’ambulanza arriva dopo cinque minuti, e mentre caricano suo padre lei mi guarda. Non dice niente, ma la domanda è sottintesa. E io non ho risposte<br />
da darle, posso solo alzare le spalle. Taylor sale in ambulanza a fianco di suo padre e, quando partono a sirene spiegate, mi sciolgo in un fiume<br />
inaspettato di lacrime. Gabe mi abbraccia e torniamo alla sua macchina.<br />
«Ti sei comportata bene, Frannie». Non chiede neppure come facevo a saperlo. Mi tiene solo stretta.<br />
«È colpa mia», riesco a sillabare fra un singhiozzo e l’altro.<br />
Mi alza il mento con un dito. Poi le sue labbra tracciano un percorso che parte dalla mia fronte e passa per la tempia e poi la guancia, fino a sfiorarmi<br />
le labbra. Sussurra: «Devi smetterla di darti la colpa di tutte le cose brutte che succedono».<br />
Lo spingo via. «Dovevo parlarne con mio padre e fare in modo che la parrocchia li aiutasse». Ma mi sono persa nei miei drammi personali e ho<br />
dimenticato tutto il resto. <strong>Il</strong> senso di colpa mi si abbatte addosso e non oppongo resistenza. È giusto che mi senta una merda, mi sembra il minimo.<br />
Parcheggiamo nel vialetto di casa e Gabe si guarda intorno preoccupato, proprio come aveva fatto Luc sere fa.<br />
Mi metto gli occhiali da sole, in modo che mia madre non si accorga dei miei occhi arrossati dal pianto. «Stai meglio?». La voce di Gabe è così dolce<br />
e piena di trasporto che mi fa venire voglia di piangere ancora, ma mi sforzo di buttare giù il magone.<br />
«Sì».<br />
«Ok… e non devi andare da nessuna parte?»<br />
«Non che io sappia».<br />
«Bene. Chiudi a chiave la porta». Mi avvolge nel suo abbraccio e con occhi inquieti scandaglia tutt’intorno.<br />
«Ma perché tutti mi assillano con questa storia di chiudere a chiave? Mi volete dire cosa sta succedendo?».<br />
Si stacca da me e fissa lo sguardo sui cespugli a lato del portico. «Niente, davvero. Solo che è meglio stare attenti di questi tempi».<br />
«Sei proprio un pessimo bugiardo», dico allontanandomi a mia volta.<br />
Mi stringe di nuovo a sé, e quando mi bacia spingo il mio corpo contro il suo. Faccio scivolare le mani sul suo petto e poi sui fianchi. «Vieni dentro con<br />
me». Improvvisamente non ho voglia di stare da sola.<br />
Fa un sospiro, seguito da un sorriso dispiaciuto. «Non chiederei di meglio, ma ho bisogno di parlare con Lucifer. Promettimi di chiudere a chiave e<br />
restare dentro casa».<br />
«Va bene», dico, delusa. Sono esausta e mi chiedo come farò ad arrivare in cima alle scale. «Poi però torni?»<br />
«Appena posso». Mi guarda negli occhi. «Sei sicura di sentirti meglio?»<br />
«Ce la posso fare».<br />
«Riposati, ne hai bisogno». Mi bacia di nuovo, poi apre la porta e col suo modo gentile mi spinge in casa, continuando a guardarsi intorno.<br />
Chiudo la porta alle mie spalle e saluto una casa stranamente silenziosa. Nessuna risposta. Wow. Visto che non c’è nessuno decido di seguire i<br />
consigli di Gabe e mi chiudo dentro a chiave.<br />
A metà rampa della scala le mie gambe tremanti si rifiutano di andare oltre. Mi siedo lì dove sono, stringendo le ginocchia al petto. Come ho potuto<br />
dimenticare di parlarne a mio padre? Potevo aiutare Taylor e non l’ho fatto. Mi opprime una cappa di tristezza. Mi sdraio sul fianco, appoggiata al legno<br />
duro del gradino, e penso a che persona orribile sono.<br />
Ma almeno l’ho fermato.<br />
È meglio di niente, immagino. È la prima volta che grazie a una visione sono in grado di cambiare gli eventi. Questo mi conforta un po’.<br />
Dopo un’eternità, mi tiro su e raggiungo la mia stanza. Accendo lo stereo e mi butto sul letto, fissando il soffitto. Quando chiudo gli occhi, Luc è lì. E non<br />
è solo un’immagine: posso sentire la sua energia oscura e il suo profumo di cannella. Mi arrabbio con me stessa quando sento le lacrime scorrermi sul<br />
volto. Non voglio piangere, non per lui.<br />
Raccolgo le forze, mi alzo e mi dirigo alla finestra. Scosto le tende, anche se so che Gabe se n’è andato da un pezzo, ma potrei giurare che là, dietro<br />
agli alberi, il sole si riflette sul parabrezza di una Shelby Cobra del ’68.<br />
Luc?<br />
Immagino di correre fuori e buttarmi tra le sue braccia. Poi mi torna in mentre la ragazza bellissima e seminuda sdraiata sul suo letto e penso che<br />
invece potrei chiamare la polizia e accusarlo di stalking.<br />
Sbircio fuori di nuovo. L’auto è ancora là, parcheggiata dall’altra parte della strada a due porte di distanza dalla mia, cioè davanti a casa dei<br />
Brewsters, dove l’ho vista anche la sera che tornavo da casa di Taylor. Ma cosa diavolo vuole da me?<br />
Grazie al guizzo di energia generato dalla rabbia, infilo le scale di corsa e in un baleno volo fuori dalla porta di casa. Attraverso il prato come una furia,<br />
l’erba è fresca sotto ai miei piedi nudi, e quando li poso sulla strada sento l’asfalto che trema percosso dai bassi della musica che proviene dalla<br />
macchina. <strong>Il</strong> riflesso del sole sui finestrini non mi permette di distinguere bene, ma lui è lì, seduto nell’ombra. La musica si abbassa e il finestrino viene<br />
giù. Mi chino e sto per appoggiarmi alla portiera, quando mi accorgo che dentro non c’è Luc, ma uno che potrebbe essere suo fratello.<br />
«Oh, scusa», dico quando mi riprendo. «Pensavo fossi un altro».<br />
Lo sconosciuto mi sorride e i suoi occhi si accendono. «Sarò chiunque tu voglia», dice con voce vellutata. C’è qualcosa che mi ammalia nel suo tono<br />
suadente, e in lui in generale. I suoi occhi scuri e profondi non mi lasciano andare.<br />
Ricambio lo sguardo, mentre dallo stereo scaturisce il ritmo ossessivo di Love hurts degli Incubus. «È un incantesimo che non mi fa vedere cosa ho<br />
davanti?», domanda la canzone.<br />
«Assomigli molto… a un mio amico». La mia voce è un’eco distante.<br />
Ha lo stesso sorriso di Luc. «Spero che sia un amico intimo».<br />
Una nebbia oscura inghiotte i miei pensieri. «Ehm… intimo… sì…». E mentre faccio il giro della macchina e apro lo sportello sul lato passeggero la<br />
mia mente si svuota del tutto.