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Stavo ragionando così, ad alta voce quasi, quando <strong>di</strong><br />
colpo il mondo mi s’è sfatto.<br />
Lo sento arrivare, poco prima: qualche cosa <strong>di</strong> nuovo<br />
mi succede, in questa fiacca <strong>di</strong> mattine troppo lunghe <strong>di</strong><br />
<strong>di</strong>giuno, e lastre, flebo, scopie, grafie, attese vuote. È agosto<br />
eppure ho freddo, ma non perché in vestaglia e in pigiamino<br />
d’ospedale.<br />
Ora però non ho più freddo. Mi sollevo dalla se<strong>di</strong>a dove<br />
l’infermiera m’ha riposto in attesa del mio turno. Devo<br />
alzarmi, devo muovermi, andare fuori laggiù dove va<br />
quell’altra parte <strong>di</strong> me che s’allontana da quest’altra che<br />
rimane qui seduta. Mi alzo per andare <strong>di</strong>etro a me stesso<br />
che me ne vado lungo il corridoio, verso l’aria e gli alberi<br />
del giar<strong>di</strong>no meschinello oltre la porta a vetri del reparto<br />
ra<strong>di</strong>ologia. Senza un accompagnatore non devo muovermi,<br />
lo so, ma forse mi ritrovo l’infermiera sulla strada. Le<br />
<strong>di</strong>rò che devo muovermi, tenere <strong>di</strong>etro al me che se ne va,<br />
che deve aiutarmi lei a stare <strong>di</strong>etro a quel me stesso.<br />
Capisco che tutto è strampalato, ma è quel che mi succede.<br />
Più strano è che nessuno intorno s’accorge <strong>di</strong> questa<br />
novità impossibile: ecco che chiedo aiuto a tutti, ma non<br />
c’è chi ba<strong>di</strong>.<br />
Una maniglia <strong>di</strong> porta che si muove da sola: è qualcuno<br />
che la gira dal <strong>di</strong> dentro. Poi non vedo, non sento. Me<br />
ne vado da questa nausea nera.<br />
Bene, forse questo è morire.<br />
Ma non è morire. Morire è certamente un’altra cosa.<br />
Dentro, molto lontano, mi nasce un caldo, una luce, un calore<br />
lucente. Cresce. E io con lui. Ma è faticoso, non ne ho<br />
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voglia. Meglio restare dov’era finora, via da tutto quanto.<br />
Oppure lascio il mondo riformarsi tutto intorno, per poi<br />
aprire gli occhi e vedere dove sono.<br />
Percepisco un profumo e risento il mio corpo. Ecco la<br />
maniglia d’una porta che girava da sola: è già un ricordo.<br />
Come al cinema la pellicola bloccata da un intoppo poi riparte,<br />
i suoni risalgono la china del lamento, le immagini<br />
riprendono il gestire naturale.<br />
Come si sente una mucca svizzera che un mattino si<br />
sveglia e le Alpi non ci sono più?, <strong>di</strong>ceva una barzelletta<br />
<strong>di</strong> mio figlio: ma com’è che prosegue?<br />
Il profumo è dell’infermiera. E mi sta parlando. M’ha<br />
accarezzato sulle guance:<br />
– Forza, sveglia, non è niente!<br />
Non erano carezze. Erano schiaffi, non proprio leggeri:<br />
– Dove sono, cos’è successo? Sono solo svenuto?<br />
– Sì, abbastanza però. Ancora un po’ ed era troppo. Eccoci<br />
<strong>di</strong> nuovo qua, signor sindaco.<br />
Signor sindaco? A chi parla? Già, sono io, il signor sindaco.<br />
Sono in poltrona, faccio per alzarmi, lei s’allarma:<br />
– No, adesso non esageriamo però.<br />
Ho voglia <strong>di</strong> toccarla, per essere più certo, per gratitu<strong>di</strong>ne,<br />
perché so che m’ha tenuto lei, non son caduto a<br />
terra, m’ha portato in questa stanza dove sono adesso.<br />
Sollevo il braccio, ma il gesto mi si ferma lì a metà, lo<br />
piego per proteggermi dal sole che piove da una finestra.<br />
E col braccio piegato a protezione del viso, ecco, ricordo,<br />
mi rivedo sul marciapiede in via Crispi che tento <strong>di</strong><br />
proteggermi col braccio: l’investimento là in via Crispi,<br />
voluto, preparato, ho visto in faccia l’autista per un lungo<br />
istante. Non l’ho <strong>di</strong>menticato, insieme con il resto.<br />
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