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Speciale Sardegna - Centro Studi e Ricerche Aleph

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A passo di gambero, un commento<br />

di Fabiana Barilli<br />

A passo di gambero è un racconto che si articola in tre episodi. Il<br />

primo di questi esprime, celata dietro un’apparente lezione<br />

filosofica, la volontà di Alberto Cantoni di affermare uno dei<br />

principi fondamentali dell’umorismo: la labilità, l’illusorietà delle<br />

apparenze che impediscono di giungere ad una verità<br />

incondizionata, ad una scoperta assoluta, ad un’affermazione<br />

precisa, come quella cui aspira il professore protagonista: la<br />

creazione di Dio.<br />

Tuttavia, la questione centrale è costituita non dalla volontà e<br />

dalla possibilità di creare nientemeno che Dio, ma l’episodio dal<br />

quale queste, a detta dello stesso professore, sono scaturite.<br />

L’affollata assemblea, trepidante per essere sul punto di assistere<br />

all’invenzione del secolo, si trova a dover ascoltare un discorso su<br />

un bottone! Fichte confessa di essere rimasto sconvolto ed<br />

intellettualmente immobilizzato da una visione sconcertante: la<br />

giacca del suo migliore alunno priva di un bottone. La chiave del<br />

discorso sta nella dichiarazione di sapersi concentrare su una<br />

mancanza piuttosto che su una presenza, e di fondare su questa<br />

la propria sicurezza.<br />

Nella vita, date le sue ambiguità e contraddizioni, accade proprio<br />

che sia più semplice dire, vedere, capire, ciò che non è piuttosto<br />

che quel che è. La scucitura della stoffa rappresenta gli strappi<br />

moderni della coscienza umana, ovvero i dubbi, le angosce, le<br />

perplessità, non necessariamente apportati da eventi tristi o<br />

addirittura luttuosi, ma anche dalla semplice quotidianità, la quale<br />

spesso non è in grado di garantire certezze e punti di riferimento,<br />

persino sulla propria identità e su quella degli altri, nel gioco delle<br />

parti che è la vita.<br />

«Quel bottone che non c’era divenne la mia stella polare»,<br />

dichiara il filosofo. La stella polare dell’autore, il quale cerca di<br />

trasmetterla ai suoi lettori, è invece la capacità di prendere<br />

coscienza dell’illusorietà e della molteplicità del reale. Non ha più<br />

tanta importanza la proclamazione o meno di Dio:<br />

Ma il povero Dio fu tanto subissato sotto una gragnuola così fitta<br />

di obiettività e di subiettività che alla stretta dei conti si avrebbe<br />

potuto giurare che o Dio c’era anche prima di Fichte, o non c’era e<br />

non ci sarà né prima né dopo.<br />

La vera e più risolutiva scoperta (almeno finché bisogna fare i<br />

conti con l’umile esistenza terrena) è un’altra: possono essere<br />

proprio un’assenza, una rottura, una mancanza, a riempire, a<br />

colmare, a spiegare, a stimolare; queste sono spesso più vere e<br />

più possibili della matematica certezza e di un riferimento<br />

assoluto. Il vuoto e l’imperfezione sono le situazioni più correnti e<br />

normali, per cui l’unica via di salvezza può essere il cercare di<br />

renderle anche ideali.<br />

Ci possono essere solo consolazioni per la precarietà dell’essere<br />

umano. I punti di riferimento diventano allora le abitudini, le cose<br />

che si sa di poter trovare sempre al medesimo posto in mezzo al<br />

caos fisiologico del mondo; in tal caso allora non è il bottone nello<br />

stesso punto sul cappotto che bisogna cercare, ma il pezzo di<br />

stoffa rimasto vuoto per la mancanza di quel bottone, rivelatore di<br />

una banale quanto rassicurante certezza: quello che là dovrebbe<br />

esserci, per completezza e precisione, ma soprattutto per<br />

normalità, è assente. Fondamentale non è la condizione di<br />

presenza piuttosto che di assenza, ma è la lucidità di saper<br />

individuare un punto fisso cui riferirsi; poco importante poi è che<br />

sia rappresentato da un pieno o da un vuoto, da un più o da un<br />

meno.<br />

Il grande passo che solo l’umorista sa compiere è proprio quello di<br />

sapersi adattare all’anormalità e alla stranezza comprendendo<br />

che queste sono solo apparenti, perché le facciate del reale<br />

possono celare quanto di più immaginoso e spettacolare.<br />

In poche righe Cantoni riesce ad avere intuizioni sottili e capaci di<br />

distaccarsi da quella morale che, non per nulla, suol dirsi<br />

“comune”; se il protagonista del racconto è lo studioso,<br />

l’antagonista non è incarnato da un’unica entità, ma dalla folla<br />

divoratrice, dalla maggioranza indistinta emblema della carenza di<br />

sensibilità e dell’incapacità di profonda riflessione. Il popolo è<br />

portatore di relativa coscienza e di modesta capacità di<br />

comunicazione, e per questo ancora più ingiustificato e ridicolo<br />

nella continua volontà di giudizio ferreo e inderogabile.<br />

Progetto Babele Dodici<br />

- 39 -<br />

Anche la scelta di Fichte (operando addirittura una sostituzione<br />

con Locke, vero protagonista dell’evento, come spiega in nota lo<br />

stesso autore) è significativa: se l’umorista è il negatore dell’unità<br />

dell’Io, il filosofo, con il suo idealismo, pone la base filosofica del<br />

Romanticismo tedesco: identifica il reale con l’Io e vede il mondo<br />

esterno come sua negazione, non-Io. Da qui nasce l’impulso di<br />

fuga dal reale, il soggettivismo esasperato, la tensione verso<br />

l’infinito, ma anche la cosiddetta “ironia romantica” che sorge dalla<br />

consapevolezza che appunto la realtà esteriore non è altro che<br />

una riproduzione e che come tale non può fare a meno di essere<br />

sempre un poco falsata.<br />

«Voltiamo pagina»: sono le parole che utilizza Cantoni con un<br />

intervento diretto a segnalare il passaggio dall’aneddoto di Fichte<br />

all’episodio successivo. Ecco allora un esempio di meta-racconto,<br />

dove l’autore è narratore e critico insieme. Presenta infatti<br />

direttamente al pubblico il suo scritto in fieri, e ne scandisce i<br />

passaggi ad alta voce (oltre che graficamente attraverso i tre<br />

asterischi e lo spazio bianco del foglio).<br />

La narrazione seguente si apre con una dichiarazione forte e<br />

decisa in prima persona:<br />

Io sono miope.<br />

Si annuncia la storia di un buffo scambio, attraverso l’espediente<br />

favolistico dell’incantesimo, fra due tizî che hanno opposti<br />

problemi di vista e che quindi si compensano e<br />

contemporaneamente s’invidiano a vicenda. L’immedesimazione<br />

dell’autore con il protagonista è palese: il miope è «uno sciagurato<br />

che divora più libri di quel che non mangi ciambelle» e, per di più,<br />

ha come compagno un contadino (e Cantoni, si sa, non si è mai<br />

voluto staccare dal mondo della campagna).<br />

Si possono individuare più modelli di lettura e dunque più finalità<br />

pedagogiche dell’opera. Il primo consiglio vuole essere quello di<br />

sapersi accontentare e di non illudersi che il bello e il buono<br />

assoluti esistano, e che, pur apparenti, stiano sempre da una<br />

parte ben precisa; si vuole appunto allertare sul pericolo di<br />

credere che ciò che appartiene ad altri sia sempre migliore del<br />

nostro, quando in realtà tutto è ontologicamente momentaneo e<br />

relativo nel gran caos illusorio che è la vita.<br />

Infatti se il miope, una volta scambiata la sua vista con quella del<br />

contadino, riesce ad ammirare le cose lontane e a distinguerle con<br />

chiarezza, non è più in grado però di svolgere con disinvoltura<br />

l’attività che più ama, la lettura:<br />

[…] lietissimo perché non scambiavo più le donne per uomini, gli<br />

uomini per donne e i cani per bambini gridai al miracolo […] ma io<br />

disgraziato non po-te-vo-più-leg-ge-re!<br />

Comprende allora quanto questa non abbia prezzo per lui e<br />

quanto il benessere dell’altro, con la sua «vista da falco», sia<br />

soltanto apparente. Allo stesso modo il contadino rimpiange lo<br />

CONSIGLI DI LETTURA<br />

Alberto Cantoni (1841-1904)<br />

Alberto Cantoni è uno di quei casi di autori che non<br />

inseguirono la popolarità, ma piuttosto restarono in disparte, in<br />

modo anche un po’ eccentrico: “Sì, me lo dico da me - diceva<br />

di sé stesso - io sono uno di quegli uomini che non si possono<br />

amare bene che dopo morti; lasciatemi questa illusione!”. Nato<br />

a Pomponesco (MN) nel 1841, morto a Mantova nel 1904. Il<br />

padre Israel era un ebreo convertito, da cui Alberto ereditò<br />

grandi possedimenti, nel Mantovano, in cui visse per tutta la<br />

vita, anche se amava andare in giro per l’Europa ed aveva<br />

moltissimi corrispondenti in vari paesi. Esordisce come<br />

scrittore nel 1875 con quattro racconti sulla “Nuova Antologia”.<br />

Successivamente scrive una serie di racconti e romanzi che<br />

pubblica in editori di poca risonanza. “Un sacerdote<br />

dell’inedito” lo definiva Alberto Musatti sul “Fanfulla della<br />

domenica”. Opere principali: Un re umorista (1891), L’altalena<br />

delle antipatie (1893), Pietro e Paola (1897), Scaricalasino<br />

(1901), L’illustrissimo (1904). Ebbe recensioni favorevoli da<br />

grandi nomi, come Pirandello, Croce e Bacchelli, ma l’oblio<br />

intorno al suo nome non si diradò neanche dopo la morte,<br />

come invece forse sperava. C.S.

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