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Erthole - Sardegna Cultura

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Chie ghirat a domo sua non est pérdidu.<br />

Chi torna a casa sua non è perduto.<br />

Parlavo ora una lingua dimenticata che mi pareva di conoscere<br />

da sempre. Nella coralità di mille racconti sconosciuti<br />

si componeva la storia della non vita. Navigavo nelle<br />

profondità del tempo, dove la polvere della quotidianità<br />

sembrava non dovesse più sfiorarmi. Male subìto, creatività<br />

inespressa: tutto scorreva in un fluire senza fine, dolce come<br />

un anninnu, quando si rivolgeva a ciò che attendeva di avere<br />

nascimento, dolente come un attitu, quando piangeva la<br />

sorte di ciò ch’era caduto per follia o dimenticanza.<br />

Una bida nos hat dadu<br />

una morte li depimus.<br />

Una vita ci ha dato / una morte gli dobbiamo.<br />

Come se si potesse trovare rassegnazione in quel patto<br />

del vivere e del morire.<br />

Nella distesa era tornato il freddo, lo sentivo come l’inizio<br />

del risveglio. I ricordi del mondo riemergevano lentamente,<br />

e mi chiedevo dove sarebbero tornati suoni e voci;<br />

ma forse non c’erano ritorni.<br />

– Il paese del mio ricordo, dov’è…? –. Fu la mia ultima<br />

implorazione. Solo echi isolati si levavano, ormai, deboli come<br />

luci prossime a spegnersi.<br />

Non si connoschet su babbu chin su izu.<br />

Ma tue non t’ispores, chirca galu…<br />

Il padre non conosce più il figlio. / Ma tu non scoraggiarti, cerca<br />

ancora.<br />

Volevo trovare un nesso con il paese che viveva il caos<br />

della circolarità perduta.<br />

Non ligana prus.<br />

Non legano più.<br />

Era la conferma dello svilimento di tutto: del bene e del<br />

male, dell’eterno e dell’effimero. Ma forse ciò che appariva<br />

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dissennato era solo il travaglio per rientrare in un universo<br />

di possibili ricomposizioni.<br />

L’alba salì in un trapasso repentino, e io non riuscivo a<br />

sollevare gli occhi che dolevano fino all’urlo in quell’accecamento<br />

del risveglio. Il frangersi dei colori tra rami e foglie<br />

della sughera mi richiamava il linguaggio di Maddalena.<br />

Ero a ridosso di una siepe, che si rivelava in tutta la sua maestà<br />

di lentischio vetusto; lo riconoscevo dal profumo oleoso<br />

che prendeva alla gola e dalle piccole foglie lucide; i turgori<br />

delle drupe, traboccando dal rosso violaceo al nero, segnavano<br />

le fasi della maturazione. I ricordi svanivano rapidamente,<br />

quasi fosse destino che i concepimenti nel buio dovessero<br />

perire all’alba. Non sarei mai uscito da quello stato di quiete,<br />

se un’ombra non avesse interrotto il mio muto dialogo con<br />

la luce che filtrava dalla sughera. Mi apparve Luca. Non vedevo<br />

il suo viso; lo sentivo, però, presenza amica e rassicurante,<br />

unica certezza in quel luogo di labili visioni.<br />

– Da quando sei qui? – gli chiesi cercando di uscire dalla<br />

sua ombra. Ogni piccolo movimento mi ricordava un dolore<br />

conosciuto; il dolore di riprendere, di ricominciare. Luca<br />

non mi rispose, pareva che la mia voce non lo avesse raggiunto.<br />

Si avvicinò distendendosi nei suoi lunghi passi, e mi<br />

aiutò ad alzarmi, porgendomi le mani che afferrai, come se<br />

rappresentassero un’insperata possibilità di salvezza. Avevo<br />

voglia di muovermi e di correre per quella distesa sconfinata.<br />

– Avete il viso tirato, – disse serio, ma non mi chiese<br />

niente. Mi parlò di Bambinu: nessuno l’aveva più visto, quasi<br />

l’avesse inghiottito la terra.<br />

– Me lo porteranno, vivo o morto, – promise.<br />

– Con chi hai parlato?<br />

Mi guardò senza rispondere.<br />

– Torramus a cubile, – concluse sorridendo.<br />

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