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– Tristu e miseru chie rughet in zustissia. 74<br />
A un cenno dell’Educatore il primo grande portone blindato<br />
si spalancò con un fragore che riempì il silenzio dell’immenso<br />
androne. Cortesi e premurosi ci vennero incontro il<br />
Delegato del Direttore e il Capo delle guardie. Alcune persone<br />
nello sfondo sembravano parvenze nel deserto di quello<br />
spazio che tutto rimpiccioliva. Le voci e i suoni avevano altri<br />
echi; ci si capiva più dai gesti che dalle parole. Dopo un’attenta<br />
lettura dei documenti fu redatto un verbale, con procedura<br />
semplificata, come mi spiegarono i mei accompagnatori.<br />
Fu un susseguirsi di portoni e di specchi parabolici, che<br />
osservati dagli spioncini riflettevano spazi luminosi i quali si<br />
dilatavano sempre più in quel gioco dell’indistinto dove pareva<br />
si fosse dissolto il mondo.<br />
– Ci sono anche le telecamere, – disse il Delegato.<br />
– E i detenuti?<br />
– Dentro, – rispose il Capo delle guardie, indicando vagamente<br />
un luogo che il suo gesto rendeva lontano, indefinito,<br />
quasi inesistente. I cancelli, gli specchi, le telecamere, le<br />
guardie e tutti gli altri invisibili congegni rendevano la prigione<br />
certamente superprotetta, lo capivo anche dalla professionale<br />
sicurezza dei miei accompagnatori, compiaciuti delle<br />
statistiche che non registravano neppure un tentativo d’evasione.<br />
Io pensavo all’impercettibile processo di smemoramento<br />
che subiva chi veniva condotto per quei luoghi.<br />
Approdammo in un interminabile corridoio dal quale si<br />
poteva vedere la parte più interna del carcere, una specie di<br />
rocca fatta di torri che si alzavano fino al piano delle vetrate<br />
dove ci trovavamo. Sostammo, in attesa che i detenuti salissero<br />
in biblioteca.<br />
– Le salette dei colloqui, – commentarono gli accompagnatori<br />
mostrandomi una lunga fila di porte con pannelli a<br />
vetri.<br />
– Posso entrare?<br />
– Non ho le chiavi.<br />
Mi spiegarono ancora che le sale dei differenziati erano<br />
diverse. Parlavano con distacco, come se fra loro e il lavoro<br />
74. Misero e triste chi incappa nella giustizia.<br />
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che dovevano svolgere non ci fosse altro legame che la freddezza<br />
della tecnica e della professionalità; pareva lasciassero<br />
ogni giorno le loro emozioni negli androni e nei cortili dello<br />
smemoramento.<br />
– Cos’è? – chiesi osservando il davanzale di una finestra<br />
della torre.<br />
– Provviste. Lì ci sono gli alloggiamenti dei detenuti.<br />
A ogni finestra corrispondeva una cameretta per due o<br />
tre persone. Gli affollamenti dei vecchi cameroni non erano<br />
più consentiti.<br />
– I differenziati hanno spazi a parte, – disse il Delegato,<br />
– i contatti sono impossibili.<br />
Indicava un luogo oltre le torri e pareva volesse disegnare<br />
la statura di quei differenziati che ogni tanto entravano<br />
nei suoi discorsi, incrinandone la sicurezza. Tornai con<br />
lo sguardo alle finestre dei detenuti comuni. Esposta su un<br />
davanzale c’era della frutta.<br />
– Sono mele cotogne, – esclamai.<br />
– Può essere, – commentò il Delegato che stentava a capire<br />
la mia meraviglia. A me sembrava di cogliere un legame<br />
col mondo. Nel paese, alla festa dei Santi, le case si riempivano<br />
di cotogne. Maturavano lentamente spandendo un<br />
profumo che durava nel tempo. Mi ricordai della mia casa.<br />
Mio padre era lontano, faceva la guerra, e noi ragazzi, nelle<br />
sere d’inverno, ci raccoglievamo attorno al camino con mia<br />
madre che batteva delicatamente sull’architrave una cotogna,<br />
per addolcirne il sapore asprigno. Schioccando la lingua dicevamo<br />
ch’era «fatta», anche se ci lacrimavano gli occhi; temevamo<br />
che il tempo della maturazione si prolungasse ancora.<br />
Era passato l’inverno e la primavera, e mio padre non<br />
era ancora tornato. In luglio, le cotogne che avevamo conservato<br />
per lui, le più gialle, esposte sulla credenza, c’erano<br />
ancora, avvizzite ormai e senza profumo, come quelle dei<br />
carcerati.<br />
– Eccoli!<br />
A piccoli gruppi, distanziati uno dall’altro, i detenuti entrarono<br />
nel corridoio. Infilarono una porta a destra, lontani<br />
da noi, ma non tanto ch’io non potessi osservarli. Camminavano<br />
lentamente, con la testa sollevata. Nessuno parlava;<br />
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