VIVAVERDI 30 teatro A destra, uno scatto d’autore di Paolo Poli, tratto dal libro “Siamo tutte delle gran bugiarde” edito nel gennaio di quest’anno dalla Giulio Perrone Edizioni. Una biografia sottoforma di intervista realizzata dallo scrittore Giovanni Pannacci. Per gentile concessione della Perrone Edizioni e di Guido Harari PAOLO POLI/1 LE SUE OPERETTE MORALI CASTE E PERVERSE di Aldo Cazzullo “Sono come Eduardo. Dicono: ha un piede nella fossa, bisogna andarlo a vedere”. Avessero tutti gli uomini di spettacolo l’autoironia di Paolo Poli. Anzi, per lui la definizione di uomo di spettacolo è riduttiva. Uomo e donna insieme. Un grande del teatro e della cultura italiana, giunto a pochi mesi dagli ottant’anni, festeggiati portando in giro i Sillabari, tratti dall’opera di Goffredo Parise. L’ho intervistato una volta sola. Ero stato a teatro - due volte, a Milano e a Roma - a vederlo calarsi nei panni di sei donne giornaliste, da Irene Brin a Natalia Aspesi, in un vortice di travestimenti collaterali, ora cantante bionda - in una parodia della Rettore - ora cardinale. Erano i giorni in cui si discuteva del matrimonio gay introdotto in Spagna da Zapatero e in Gran Bretagna da Blair, e del tentativo più modesto dei Dico di italica invenzione. Una prospettiva che a Paolo Poli non garbava molto: “Il bello degli amori omosessuali” mi disse “è la loro libertà e la loro riprovazione. La storia non fa salti. Zapatero introduce in Spagna il matrimonio omosessuale? Ne sono felice. Ma qui in Italia l’unico sovrano è il Papa. E il Papa fa il suo mestiere. Non possiamo pretendere che ci benedica e ci inviti a inchiappettarci l’un l’altro. E poi il matrimonio tra gay non mi interessa, come non mi interessa quello tra uomo e donna. Io voglio seguire l’istinto e la perversione, non tornare a casa e trovare qualcuno che mi chiede cosa voglio per cena. ‘Caro, ti faccio la besciamella?’. Fuggirei subito, con un principe o con un marinaio. Chi vuole l’unione civile e l’iscrizione al registro comunale non se ne intende. Io sì”. Di politica Poli non ha mai parlato volentieri. “Non me ne frega molto. Intendiamoci: noi ragazze non capiamo nulla di politica”. Eppure nulla di umano gli è estraneo, conosce il pubblico e quindi gli italiani come nessuno, non gli sfuggono le tendenze della società. Ovviamente, preferisce quelle eterogenee, diverse, irregolari. “I Gay Pride mi mettono una tristezza infinita, come il Carnevale di Viareggio. Meglio affidarsi all’istinto, come mi hanno insegnato Balzac e Tolstoj e come mi ha ripetuto Freud: il sesso non è tra le gambe ma nel cervello, il giudizio morale non esiste, siamo tutti buoni e cattivi, casti e perversi. Questo bisogno di tenersi per mano come finocchie contente è roba da psicanalisti. Un marito non l’ho mai voluto. Al sesso sopravvive la stima, della passione resta l’amicizia. La quotidianità è noia; io volevo un vestito e una cravatta come non li aveva nessuno, il mio primo impermeabile era rosa, il primo cappello verde tirolese. C’è stato un uomo importante nella mia vita, che si è svenato per me. Ma ho sempre difeso la mia solitudine. A volte mi sveglio, avverto un richiamo antico, tasto il letto, sento che non c’è nessuno e penso: che sollievo. Avere al fianco uno che russa non significa non essere soli”. Della famiglia, Poli ha sempre trasmesso un’immagine disincantata. Ha messo in scena madri assassine e bambini spietati; al contrario della madre, convinta con Rousseau che la natura umana e infantile in particolare è buona e la società cattiva, Poli è consapevole delle note torbide che si nascondono o almeno possono nascondersi nel fondo del più innocente degli animi. E non esita a raccontarle, volgendole nel burlesco, nella satira, mai però nel volgare e nel pecoreccio. Ha saputo vellicare gli istinti degli italiani ma spingendoli verso l’alto, non trascinandoli verso il basso. La storia di Poli comincia negli Anni Trenta, quando l’educazione sessuale - racconta lui - avveniva in famiglia. “Noi eravamo sei bambini, poveri, figli di un carabiniere e di una maestra montessoriana. Io mettevo il ditino sotto la gonna delle mie sorelle e loro toccavano me; la domenica mattina mi infilavo nel letto di papà. Ho capito fin da piccolo di essere gay. Mi garbava il fornaio. Poi sono andato al cinema, a vedere King Kong, quello vero, e scoprii che mi garbava pure il gorilla. Invidiavo le mie sorelle che avevano le bambole, io con i fucili non
Foto Guido Harari