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Guido Morpurgo-Tagliabue e l'estetica del Settecento - SIE - Società ...

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mosso sempre, anche nel lavoro storiografico più capillare, da interessiteorici molto forti. In questa prospettiva anche il lavoro sul nostro <strong>Settecento</strong>,dichiaratamente “minore” nella produzione cospicua di <strong>Morpurgo</strong>,recupera un suo interesse niente affatto marginale, anche e innanzitutto sul piano metodologico.Torniamo però ai motivi che possono avere orientato, in questocaso, la scelta di <strong>Morpurgo</strong>. Accanto a quelli indicati, ve n’è un altroche per la verità l’autore non esplicita mai, ma che credo abbia esercitatosu di lui una qualche suggestione. Mi riferisco al fatto che ilconcetto di “gusto”, un concetto che nel diciottesimo secolo era destinatoa trovare le sua massime teorizzazioni in Inghilterra, Francia eGermania, aveva però preso il suo avvio e cominciato il suo camminoproprio dall’Italia <strong>del</strong> Cinquecento e <strong>del</strong> Seicento, cioè proprio dallanazione in cui, nel <strong>Settecento</strong>, manca o è meno rilevante la discussionefilosofica sul gusto.La parola “gusto”, nel senso di “piacere”, “diletto” (come nelleespressioni “trovar gusto” “andare a gusto”) è certamente diffusa inSpagna prima che in Italia, per esempio in Juan Boscán (1495-1542),che nella versione castigliana <strong>del</strong> Cortegiano di Baldassarre Castiglioneusa “gusto” per tradurre l’italiano “piacere” (anche nel senso dipiacere estetico). Ma la storia <strong>del</strong>le idee non è la stessa cosa <strong>del</strong>la storia<strong>del</strong>le parole, e, se si guarda perciò non alla parola, ma al concetto<strong>del</strong> gusto, cioè a una nozione che indica, (a) una capacità di giudizionon fondata su regole logiche, (b) un sentire che è anche un sapere,una facoltà che ha qualcosa <strong>del</strong> senso e qualcosa <strong>del</strong>l’intelletto, (c) l’avvertireattraverso il senso una preferenza non argomentabile in base aprincipi, allora in Italia vi sono esempi notevoli di impiego <strong>del</strong> concettodi gusto già nel corso <strong>del</strong> Cinquecento 9 . A parte la testimonianzaprecoce <strong>del</strong>l’Ariosto, che nell’Orlando Furioso, forse spinto dalla rimacon Augusto, poteva scrivere già nel 1516 «L’avere avuto in poesiabuon gusto/la proscrizione iniqua gli perdona», nel dialogo di LodovicoDolce L’Aretino, pubblicato nel 1557, si legge: «in tutti è postonaturalmente un certo gusto <strong>del</strong> bene e <strong>del</strong> male, e così <strong>del</strong> bello e <strong>del</strong>brutto: e si trovan molti che senza lettere giudicano rettamente soprai poemi e le altre cose scritte» 10 . Così che, all’inizio <strong>del</strong> Seicento, èpossibile trovare in Italia una formulazione piuttosto precisa <strong>del</strong> funzionamento<strong>del</strong> gusto. È nel Discorso <strong>del</strong>le ragioni <strong>del</strong> numero <strong>del</strong> versoitaliano di Ludovico Zuccolo, dove leggiamo: «La causa perché unaproporzione o consonanza sia buona, e l’altra cattiva, per vigor dimente umana non può scorgersi. Tocca a darne il giudizio ad unacerta porzione <strong>del</strong>l’intelletto, la quale, per conoscere unita coi sentimenti,suole anche pigliare il nome di senso; onde abbiamo in costumedi dire che l’occhio discerne la bellezza <strong>del</strong>la pittura e l’orecchio40

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