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AA.VV. - Racconti matematici - CTS Basilicata

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affilatissime come rasoi?)<br />

A meno che voi non siate uno di quei rari mutanti virtuosi della forza bruta,<br />

troverete che il tennis agonistico, come il biliardo professionistico, richiede una mente<br />

geometrica, l’abilità di calcolare non soltanto le vostre angolazioni ma anche le<br />

angolazioni di risposta alle vostre angolazioni. Poiché la crescita delle possibilità di<br />

risposta è quadratica, siete costretti a pensare in anticipo a un numero n di colpi, dove<br />

n è una funzione iperbolica limitata dal seno della bravura dell’avversario e dal coseno<br />

del numero di colpi scambiati fino a quel momento (approssimativamente). Io lo<br />

sapevo fare. Quello che mi rese per un breve periodo un quasi-campione era la<br />

capacità di far rientrare nei miei calcoli anche le complicazioni differenziali del vento:<br />

riuscivo a pensare e giocare in base otto. Perché il vento imponeva delle traiettorie<br />

curve alle linee e trasformava il gioco in uno spazio a tre dimensioni. Il vento<br />

danneggiava pesantemente molti giocatori juniores dell’Illinois centrale nel periodo da<br />

aprile a luglio, quando avrebbe avuto bisogno di una bella dose di litio, dato che<br />

tendeva a soffiare in raffiche disordinate, a turbinare, a fare marcia indietro, a<br />

smorzarsi e poi riprendere, tirando, alle volte, in una direzione al livello del campo, e<br />

in una completamente diversa a tre metri sopra le nostre teste. Ci era richiesta una tale<br />

precisione mentale da cogliere per induzione i trend delle percentuali di rischio, delle<br />

spinte, degli angoli di ritorno – precisione sulla quale il nostro coach e gli altri<br />

allenatori non professionisti della città erano bravi a teorizzare astrattamente armati di<br />

gesso e lavagna, o, negli allenamenti, legando col filo da bucato la gamba di un allievo<br />

alla recinzione per limitare il suo arco di movimento, o posizionando cesti della<br />

biancheria nei vari angoli e facendoci tirar dentro una palla dopo l’altra, oppure<br />

disegnando a terra col nastro adesivo una specie di scatole cinesi all’interno dei<br />

rettangoli del campo per gli esercizi e gli scatti col vento contro e a favore – tutta<br />

questa preparazione teorica andava a farsi friggere quando le tue scarpe da tennis<br />

toccavano veramente il campo da gioco in un torneo. I tiri programmati al millimetro,<br />

i colpi più studiati spesso finivano semplicemente fuori campo, ecco qual era il<br />

prosaico problema di fondo. Il capriccio e l’ingiustizia di tutto questo faceva quasi<br />

uscire pazzi alcuni ragazzini, e nelle giornate veramente ventose, questi ragazzini, che<br />

avevano talento a palate, rischiavano di avere la loro prima furibonda crisi di nervi con<br />

lancio di racchetta più o meno verso il terzo game della partita, di cadere poi in una<br />

sorta di corna depressivo entro la fine del primo set, aspettandosi ormai con amarezza<br />

di venire fottuti dal vento, dalla rete, dal nastro, dal sole. Io, che ero stato<br />

affettuosamente ribattezzato Lumaca, perché ero una merda di lavativo negli<br />

allenamenti, individuavo la mia più grande dote tennistica in uno strano distacco<br />

robotico da qualsiasi avversità di vento e clima che non riuscissi a prevedere. Non vi<br />

dico quante partite di torneo ho vinto tra i dodici e quindici anni contro avversari più<br />

grandi, più veloci, più coordinati, o meglio allenati, semplicemente ribattendo palle<br />

centrali, senza alcuna fantasia, in mezzo a schizofreniche tempeste di vento, lasciando<br />

che l’altro ragazzino giocasse con più energia e più spavalderia, aspettando che un<br />

numero sufficiente dei suoi colpi ambiziosi, diretti vicino alle righe, curvassero o<br />

slittassero grazie al vento fuori dal campo verde e dalla striscia bianca, verso la cruda<br />

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