AA.VV. - Racconti matematici - CTS Basilicata
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Esame dell’opera di Herbert Quain<br />
di Jorge Luis Borges<br />
Herbert Quain è morto a Roscommon; ho visto senza sorpresa che il Supplemento<br />
letterario del Times gli dedica appena una mezza collana di pietà necrologica, in cui<br />
non v’è epiteto laudativo che non sia corretto (o seriamente redarguito) da un<br />
avverbio. Lo Spectator, da parte sua, è certo meno laconico, e forse più cordiale, ma<br />
paragona il primo libro di Quain – The God of the Labyrinth – ad uno di Agata<br />
Christie, e gli altri a quelli di Gertrude Stein: accostamenti che nessuno giudicherà<br />
inevitabili, e che non avrebbero rallegrato il defunto. Questo, del resto, mai si credette<br />
geniale: neppure nelle notti peripatetiche di conversazione letteraria, in cui l’uomo che<br />
ha già fatto gemere i torchi gioca invariabilmente a fare il Monsieur Teste o il dottor<br />
Samuel Johnson... Avvertiva con tutta lucidità la condizione sperimentale dei propri<br />
libri: ammirevoli forse per originalità e per certo probo laconismo ma non per le virtù<br />
della passione. «Sono come le odi di Cowley», mi scrisse da Longford il 6 marzo<br />
1939. «Non appartengo all’arte, ma alla mera storia dell’arte». Non v’era, per lui,<br />
disciplina inferiore alla storia.<br />
Ho riferito un tratto di modestia di Herbert Quain: naturalmente, questa modestia<br />
non esaurisce tutto il suo pensiero. Flaubert ed Henry James ci hanno abituato a<br />
supporre che le opere d’arte siano infrequenti, e di esecuzione laboriosa; il secolo XVI<br />
(ricordiamo il Viaggio del Parnaso, ricordiamo il destino di Shakespeare) non<br />
condivideva questa sconsolata opinione. Né la condivideva Herbert Quain. Giudicava<br />
che la buona letteratura è piuttosto comune, e che non v’è quasi dialogo casuale,<br />
conversazione udita per la strada, che non la raggiunga. Giudicava anche che il fatto<br />
estetico non può prescindere da qualche elemento di stupore, e che stupirsi a memoria<br />
è difficile. Deplorava con sorridente sincerità «la servile ed ostinata conservazione» di<br />
libri preferiti... Non so se la sua vaga teoria si giustifichi; so che i suoi libri aspirano<br />
troppo alla sorpresa.<br />
Deploro di aver prestato ad una signora, irreversibilmente, il primo che pubblicò.<br />
Ho già detto che si tratta d’un romanzo poliziesco, The God of the Labyrinth; posso<br />
aggiungere che l’editore lo mise in vendita negli ultimi giorni del novembre 1933. Ai<br />
primi di dicembre dello stesso anno, le gradevoli e ardue involuzioni del Siamese Twin<br />
Mystery affaccendarono Londra e New York; io preferisco attribuire l’insuccesso del<br />
romanzo del nostro amico a questa coincidenza rovinosa. Nonché (voglio esser del<br />
tutto sincero) alla sua deficiente esecuzione ed alla vana e frigida pompa di certe<br />
descrizione del mare. A distanza di sette anni, m’è impossibile recuperare i dettagli<br />
dell’azione; ma eccone il piano generale, quale l’impoveriscono (quale lo purificano)<br />
le lacune della mia memoria. V’è un indecifrabile assassinio nelle pagine iniziali, una<br />
lenta discussione nelle intermedie, una soluzione nelle ultime. Poi, risolto ormai<br />
l’enigma, v’è un paragrafo vasto e retrospettivo che contiene questa frase: «Tutti<br />
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