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AA.VV. - Racconti matematici - CTS Basilicata

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Normandia, la vittoria ormai ineluttabile degli Alleati e quel tizio goffo e silenzioso<br />

che faceva l’Archimede Pitagorico nel suo capannone erano strettamente connessi.<br />

Dal canto suo, nei dieci anni di vita che gli restavano, Turing non ne fece parola. Sua<br />

madre, che per lui faceva sogni di gloria, dovette accontentarsi di ritagliare rari articoli<br />

di cui non capiva niente e che continuavano a menzionare il suo Alan come una<br />

speranza della logica formale, quest’antiquata disciplina che sapeva di anni Trenta.<br />

Forse Turing temeva che se avesse spiegato come, in un certo senso, aveva vinto la<br />

guerra, lo avrebbero preso per pazzo. O forse i suoi pensieri erano ormai rivolti<br />

altrove.<br />

Il gioco dell’imitazione<br />

Turing aveva vinto la guerra, ma perse la pace. Non essendo il tipo che coltiva<br />

amicizie interessate o che, come molti ex collaboratori di Ultra, si fa nominare in<br />

qualche comitato prestigioso, tornò alla vita borghese in veste di anonimo ricercatore<br />

all’università di Cambridge, poi di Manchester, dove era in corso un progetto per la<br />

realizzazione di un computer inglese, rivale del famoso ENIAC che l’équipe di Eckert<br />

e Mauchlay stava costruendo in America. Per i suoi contemporanei più illuminati, un<br />

computer era una macchina capace di addizioni e moltiplicazioni molto veloci – e<br />

tutto sommato la Bomba era questo; ma per Turing quest’applicazione, benché<br />

incontestabilmente utile, non era essenziale: ciò che a lui interessava era il sistema<br />

logico implicato. La macchina dei suoi sogni sarebbe stata in grado di applicare<br />

qualsiasi programma, e occorreva poter fabbricare programmi in grado di svolgere (o<br />

simulare, posto che ci sia una differenza) qualunque processo di cui si avesse<br />

conoscenza. A quanti affermavano sdegnosi che una macchina avrebbe sempre e<br />

soltanto potuto eseguire delle operazioni aritmetiche, rispondeva che non era neppure<br />

capace di questo, e non lo sarebbe mai stata: una macchina non sa fare di calcolo più<br />

di quanto non giochi a scacchi o non scriva poesie, ma il suo programma può<br />

consentirle di manipolare dei simboli formali di modo che sembrerà fare ciò che il<br />

linguaggio corrente indica con il nome delle suddette attività. Esattamente la stessa<br />

cosa, sosteneva Turing, può dirsi del cervello umano. Di qui la sua ambizione di<br />

“creare un cervello”.<br />

Un’idea, questa, che alla fine degli anni Quaranta era nell’aria. Ancora non si<br />

parlava di informatica, ma di cibernetica. Vescovi e filosofi dibattevano animatamente<br />

intorno all’idea rivoltante che una macchina creata dall’uomo potesse un giorno<br />

pensare come il proprio creatore. Ai nomi illustri di questa nuova scienza – Norbert<br />

Wiener, J.B.S. Haidane, John von Neumann – talvolta le persone meglio informate<br />

aggiungevano quello di Turing, oscuro precursore che non faceva parlare di sé dai<br />

tempi del suo famoso articolo del 1934. Adesso l’espressione “macchina di Turing”<br />

per designare l’essenza della “macchinità” aveva acquisito diritto di cittadinanza,<br />

anche se nelle pubblicazioni scientifiche si era arrivati a scriverla con una t minuscola<br />

– segno di consacrazione suprema o di oblio siderale. Come la prendesse il diretto<br />

interessato rimane un mistero, e probabilmente il suo biografo non ha torto quando<br />

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