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Cardiologia negli Ospedali n° 154 Novembre/Dicembre 2006 - Anmco

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V I A G G I O I N T O R N O A L C U O R E<br />

“chiedere”, ma per ottenere qualcosa e non per sapere<br />

qualcosa (che i latini indicavano con quaerere).<br />

Tutto questo induce ad una seria riflessione sul ruolo e l’importanza<br />

di chi traduce testi, specialmente letterari e filosofici<br />

(per quelli scientifici si può almeno contare su una<br />

rigida specificità lessicale), da una lingua all’altra e sulle enormi<br />

difficoltà che questo lavoro comporta. Quanto stiamo<br />

per dire si riferisce alla lingua scritta, per quella parlata gli<br />

interpreti si trovano di fronte ad altre difficoltà, ma certamente<br />

l’ambiente circostante, la modulazione della voce, i<br />

movimenti delle mani, in altre parole il linguaggio corporeo<br />

di chi parla, forniscono informazioni fondamentali.<br />

Ma allora come si deve tradurre e secondo quali regole<br />

La “querelle” ci porta lontano nel tempo. Potremmo affermare<br />

che non solo il come, ma soprattutto le implicazioni<br />

che tale compito impone sono antiche tanto quanto la traduzione<br />

stessa.<br />

Forse l’etimo stesso del verbo tradurre contiene in sé il<br />

germe di questa ambiguità: tale parola derivata dal latino<br />

trans-ducere,“portare al di là”, era nata inizialmente con un<br />

significato concreto, quello di trasferire qualcosa da un<br />

luogo ad un altro; la certezza che questo termine esprime<br />

nella sua immediatezza, cioè quello di poter tranquillamente<br />

prendere un testo e portarlo pari pari in un’altra lingua,<br />

che è anche un’altra dimensione sociale, temporale e culturale,<br />

comunica l’illusoria convinzione (ulteriormente confermata<br />

anche dalla scuola dove molte volte si insegna a<br />

tradurre senza riflettere su questi argomenti) che sia possibile<br />

un’operazione di questo genere, semplice ed indolore.<br />

Solo nella tarda latinità, il verbo ha acquisito il significato<br />

figurato di “trasportare” un testo da una lingua all’altra; il<br />

latino classico per definire questa operazione, preferiva<br />

altre forme come convertere, exprimere, interpretari, recidere,<br />

e Graeco in Latinum convertere diceva Cicerone, offrendo<br />

con questa vasta gamma di termini un quadro forse più<br />

articolato e realistico sulla difficoltà del “tradurre”.<br />

Va però anche ricordato che il concetto di traduzione nel<br />

mondo latino coincideva spesso con quello di imitatio: tutti<br />

i romani colti sapevano infatti leggere i testi originali in<br />

greco e al traduttore interessava soprattutto dar prova<br />

della sua capacità creativa attraverso l’emulazione dei grandi<br />

del passato, più che riportare nella propria lingua l’originale.<br />

È tuttavia proprio Cicerone a dare l’avvio all’eterno<br />

dibattito tra sostenitori della resa letterale e della libera<br />

interpretazione. Gli stessi umanisti, che per primi ricercarono<br />

una resa filologicamente aderente all’originale, ebbero<br />

ben chiara la difficoltà dell’operazione: Leonardo Bruni,<br />

avvertiva che il “traduttore deve percepire tutti, per così<br />

dire, i pregi di uno scritto e ugualmente riprodurli nella lingua<br />

in cui traduce. E poiché due sono i generi di ornamenti<br />

– uno quello con cui si dà colore alle parole, l’altro quello<br />

con cui si dà colore al pensiero – l’uno e l’altro implicano<br />

difficoltà per il traduttore”; e in un’epistola del 5 settembre<br />

1404 indirizzata a Niccolò Niccoli, il Bruni spiegava<br />

il proprio atteggiamento davanti a un dialogo di Platone che<br />

si apprestava a tradurre dal greco in latino:<br />

In primo luogo, dunque, conservo tutti i pensieri in modo che<br />

non mi allontano da essi nemmeno per la più piccola parte.<br />

Poi se una parola si può rendere con una parola corrispondente<br />

senza alcuna sconvenienza e assurdità, ben volentieri fo’<br />

così. Se invece non è possibile non sono tanto preoccupato da<br />

pensare di cadere in un crimine di lesa maestà se, conservato<br />

il pensiero, mi allontano un po’ dalle parole. E questo me lo<br />

comanda di fare lo stesso Platone, il quale essendo di ‘elegantissima<br />

bocca’ presso i Greci, non vuole certamente sembrare<br />

incapace presso i Latini.<br />

John Dryden, nel diciassettesimo secolo, ripropose una<br />

interessante riflessione sul tema indicando, nella prefazione<br />

alla traduzione delle Epistole di Ovidio, tre possibili tipologie<br />

di trasposizione: la metafrasi, quando il testo è riproposto<br />

parola per parola, la parafrasi, quando lo si ripropone<br />

secondo il senso, l’imitazione, quando il traduttore si allontana<br />

dall’originale. Tuttavia, egli suggerisce il criterio della<br />

moderazione, della via di mezzo, e dice di essersi attenuto<br />

tra i due estremi, ovvero tra la metafrasi e la parafrasi, pur<br />

cercando di modernizzare la lingua di partenza.<br />

Di avviso diverso gli studiosi dell’epoca romantica, essi la<br />

considerarono un’attività autonoma e creativa, tanto che<br />

anche il traduttore, nella sua libertà interpretativa, doveva<br />

avere una sensibilità pari a quella dei poeti.<br />

Dunque la traduzione è un procedimento meccanico o<br />

creativo E quali devono essere le qualità richieste a un traduttore<br />

Dai primi decenni del Novecento, e fino ad oggi, il rinnovato<br />

fervore per gli studi linguistici e antropologici ha spinto<br />

verso il tentativo di fondare una vera e propria scienza della<br />

traduzione.<br />

A questo proposito merita ricordare la cosiddetta ipotesi<br />

Sapir-Whorf, secondo la quale la struttura di una lingua<br />

influenza il modo di pensare del parlante, quindi la sua cultura.<br />

I due antropologi della Yale University, il primo allievo<br />

del secondo, nella prima metà del secolo scorso, elaborarono<br />

una teoria, conosciuta anche come relativismo linguistico,<br />

secondo la quale ogni lingua rappresenta una visione<br />

unica del mondo, incompatibile con ogni altro modo di percepire<br />

la realtà e chi la parla non può liberarsi dalle categorie<br />

che la lingua stessa impone sulle percezioni e sul pensiero.<br />

È comunque dallo strutturalismo che giunge una speranza<br />

di venire a capo del problema: Roman Jakobson, tra i fon-<br />

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