Posted 03/11/<strong>2008</strong> h 10.23 a.m., CET. Donne uniche. Donne come non ne nascono più su questa terra. Donne che sono ogni donna. Il “breve saggio in lode di Nico” che segue <strong>è</strong> tratto dal libro di Victor Bockris e Gerard Ma<strong>la</strong>nga Up-Tight. The Velvet Underground Story. Christa Päffgen, “Nico”. Colonia, 16 ottobre 1938 – Ibiza, 18 luglio 1988. R.I.P. Se esiste una bellezza così universale da essere indiscutibile, Nico <strong>la</strong> possiede. Il volto non ha un difetto. I lineamenti sono impeccabili: <strong>la</strong> bocca <strong>è</strong> ben delineata, il naso dritto e finemente cesel<strong>la</strong>to, i limpidi occhi in delicato equilibrio. Capelli di un biondo pallido fungono da cornice. Le proporzioni sono inverosimilmente perfette. Non una caratteristica s’impone, eppure prevalgono tutte. E mentre <strong>la</strong> simmetria solitamente annoia, Nico attira l’attenzione, fa trasalire, cattura. L’apparizione di un sorriso, di un broncio, di una <strong>la</strong>crima pare assolutamente incongrua. Ancor più incongruo, poi <strong>è</strong> lo sguardo, che il più delle volte focalizza l’impercettibile. Superstar e chanteuse insieme, viene osservato di continuo che <strong>è</strong> paradossale il rapporto che vi <strong>è</strong> fra <strong>la</strong> sua bellezza e <strong>la</strong> funzione che essa svolge – che contrasto fra <strong>la</strong> Nico sullo schermo alle spalle dei Velvet Underground, che sgranocchia <strong>la</strong>nguidamente qualcosa in un bar o distrattamente si pettina in Chelsea Girls, e <strong>la</strong> Nico sul palco, che “piegata su un microfono geme <strong>la</strong>mentosa, senza fine, emettendo suoni di un alce amplificati”. Più evidente ancora <strong>è</strong> <strong>la</strong> dicoto<strong>mia</strong> fra <strong>la</strong> Nico monel<strong>la</strong> e svampita de La dolce vita e quel<strong>la</strong> che sorride malignamente dal<strong>la</strong> copertina di Esquire e <strong>la</strong> Nico che <strong>la</strong>scia il palcoscenico dopo una performance, ridendo ambiguamente. Però <strong>la</strong> paradossale convivenza, individuata dai critici, di un’innocenza evidente e naturale nei film e di una presenza scenica, dal vivo, quanto mai lugubre non <strong>è</strong> che una manifestazione secondaria del vero enigma: gli occhi. Per il suo impatto come insieme tridimensionale Nico potrebbe essere efficacemente rappresentata più che da un quadro da una scultura, ma nemmeno il più profondi degli artisti potrebbe catturare <strong>la</strong> qualità strana e inesplicabile dei suoi occhi. Che incantano, ma non fanno segnali; ignorano, ma non possono essere dimenticati; riflettono <strong>la</strong> realtà interiore, ma non offrono una chiave per penetrar<strong>la</strong>. L’espressione, o <strong>la</strong> mancanza di un’espressione comprensibile, che hanno sfugge alle categorie entro le quali può essere catalogata <strong>la</strong> sua bellezza. Gli occhi di Nico sembrano scrutare un grande mistero, ce<strong>la</strong>to dall’indifferenza, di cui vorrebbero che nessuno conoscesse l’esistenza. Che un mistero ci sia davvero o no, quegli occhi che paiono ignorare ciò che li circonda eclissano <strong>la</strong> perfezione dei lineamenti e contribuiscono grandemente a fare di Nico una presenza magnetica. Proprio questo magnetismo, distaccato, invio<strong>la</strong>bile, fa inserire Nico nel<strong>la</strong> tradizione Garbo/Dietrich e <strong>la</strong> eleva da comune bellezza nordica all’olimpo di un inavvicinabile misticismo. 24
�ico, 1962. 25
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