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Occhi Di Legno<br />

di Giulia Proietti Timperi<br />

Non ho mai pensato di essere diversa. No, questo no. Peccherei di presunzione.<br />

Mi sono sempre sentita… distante. Qualcuno lassù ha voluto dotarmi di occhi per guardare e di una bocca per raccontare. Tuttora mi<br />

chiedo se questo sia stato un dono, o la mia più grande condanna.<br />

Non posso dire di aver vissuto una vita felice, affatto. La mia esistenza è stata dolorosa. Non per quello che ho subito, ma per quello<br />

che ho visto.<br />

Ricordo poche cose dei miei primi istanti di vita, ho solo qualche flash vago e confuso. Non so dove sono nata, ignoro <strong>in</strong> quale luogo ho<br />

trascorso la mia vita. So solo che un giorno sono entrata a far parte di una costruzione che non avevo mai visto, né sentito. Da subito<br />

non mi aveva conv<strong>in</strong>to. La chiamavo “La prigione di ferro”. Vi erano tutta una serie di tubi d’acciaio <strong>in</strong>crociati tra loro.<br />

Con <strong>il</strong> tempo ho imparato che <strong>il</strong> suo nome era “Impalcatura, ponteggio”. E <strong>il</strong> mio nome era Asse. Asse di legno. Ero <strong>in</strong>castrata <strong>in</strong> mezzo<br />

ad altre come me, dovevamo fare da terreno solido per chi ci camm<strong>in</strong>ava sopra.<br />

Inizialmente, credevo che i miei pregiudizi su quella strana costruzione fossero dati dal fatto che ero appena arrivata. “Prima o poi mi<br />

abituerò”, mi dicevo. Volevo chiedere alle altre se anche loro erano nuove <strong>qui</strong>, ma loro erano assi senza occhi né bocca. Ero sola. Sola e<br />

<strong>in</strong>trappolata <strong>in</strong> una ragnatela di tubi freddi. Che esistenza amara.<br />

Quando <strong>il</strong> ponteggio fu f<strong>in</strong>ito, arrivarono loro: gli uom<strong>in</strong>i. I lavoratori. Creature dalle mani sporche, dalle facce vissute e stanche, dagli<br />

occhi giovani ma spenti. I lavori com<strong>in</strong>ciarono verso la f<strong>in</strong>e dell’estate, credo. Dovevano essere gli ultimi giorni d’agosto. I raggi del<br />

sole picchiavano sul mio corpo, e sentivo le mie fibre d<strong>il</strong>atarsi a quel calore. Gli uom<strong>in</strong>i sudavano, ansimavano. Ma non si fermavano,<br />

mai. Nemmeno <strong>il</strong> tempo di una sigaretta. Spesso, la tenevano <strong>in</strong> bocca mentre si davano da fare. Un paio di volte, qualcuno di loro ha<br />

buttato la cicca ancora fumante su di me. Non vi nascondo che ho sentito un po’ di dolore: bruciava.<br />

I giorni passavano, e loro erano <strong>in</strong>stancab<strong>il</strong>i. Sentivo i loro piedi attraversarmi, e guardavo dal basso i loro volti, sempre più tirati e<br />

stanchi. Avrei tanto voluto aiutarli, ma loro non potevano sentirmi. Per loro ero solo un pezzo di legno. Cosa potevano saperne, povere<br />

creature, che io raccoglievo i loro passi, i loro discorsi, i loro movimenti. Con <strong>il</strong> tempo, mi ci ero molto affezionata. Avevo imparato i loro<br />

nomi, e sapevo che molti avevano figli e mogli a casa che li aspettavano. Quando ne parlavano, i loro occhi si <strong>il</strong>lum<strong>in</strong>avano.<br />

Capii allora quanto erano pronti a mesi di duro lavoro, pur di sfamare le bocche delle loro famiglie. Li stimavo davvero, quegli uom<strong>in</strong>i.<br />

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