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Maria Lepori<br />
arrendatori reali» rivelò ben presto un’illecita e «secreta associazione» in affari,<br />
di cui i villaggi non si dolevano a torto. 17<br />
In meno di vent’anni le disponibilità di don Damiano Nurra si quadruplicarono<br />
e gli prospettarono opportunità di affermazione sociale ignote a qualunque<br />
suo concittadino. A instillargli il desiderio di convertirsi in signore di terre e di<br />
vassalli fu il governo, che per le proprie urgenze finanziarie avrebbe attinto<br />
volentieri alle fortune emergenti di imprenditori e mercanti. Nel 1762 gli offrì<br />
l’infeudazione di uno dei Campidani d’Oristano e della penisola del Sinis: avrebbe<br />
dovuto impiantarvi cinquanta famiglie di corallatori e introdurvi moderni<br />
sistemi di coltura e di allevamento. Mentre ricorreva alle solide finanze di un<br />
appaltatore per dare sollievo all’erario dello Stato, il ministro Bogino avrebbe<br />
voluto innestare elementi di modernizzazione in una mentalità aristocratica ancora<br />
imprigionata nella logica della semplice rendita feudale e di arcaiche pratiche<br />
agricole. Pertanto, al nuovo signore si chiedeva l’impegno a coltivar le<br />
terre con il «sistema d’Italia» e ad impiantarvi aziende dotate di «prati per cogliere<br />
il fieno» e di «stalle per il ricovero proporzionato di bestiami». 18<br />
Un sicuro fiuto negli affari avvertì immediatamente don Damiano dei rischi<br />
insiti in quel piano. Forse conosceva le vicende dell’insediamento di Carloforte<br />
17 Le malversazioni di quegli anni vengono denunciate da Juan Antonio Frau, procuratore generale<br />
delle ville del Campidano Maggiore nella lite con Damiano Nurra, il 16 agosto 1769 (ASC,<br />
Regio Demanio, Feudi, v. 63, n. 43, fascicolo non titolato) e confermate dalle numerose prove<br />
testimoniali raccolte, su ordine dell’Intendenza Generale, tra maggio e giugno 1773. Chiamato<br />
a deporre, il notaio Gian Francesco Licheri di settantasei anni, che a lungo è stato scrivano e<br />
ufficiale di giustizia nei tre Campidani, sostiene che «rispetto al marchese d’Arcais, al fu notaio<br />
Michele Vidili, e al fu don Giovanni Angelo Enna, il quale ha esercito per molti anni, che non<br />
saranno meno de dieci o dodici, fino al tempo del suo decesso, l’impiego di Suddelegato<br />
Patrimoniale della Suddelegazione di Oristano, mi consta, e so benissimo, che essi tre, non<br />
solamente erano molto amici, sempre uniti ed interessati insieme in vari negozi, essendo anche<br />
don Giovanni Angelo Enna zio di don Damiano Nurra, ora marchese d’Arcais, ma ancora<br />
nell’arrendamento reale delle rendite civili dei Campidani d’Oristano, che per molti anni ebbero<br />
don Damiano ed il notaio Vidili, con altri soci de’ quali non ricordo, vi era secretamente<br />
associato don Giovanni Angelo Enna, allora Suddelegato Patrimoniale e durò in tale società<br />
fino al tempo della morte. Ciò mi consta perché io abitava allora frequentemente in casa di don<br />
Giovanni Angelo Enna, come mio cognato, per essere ammogliato con una mia cugina, e tanto<br />
da questa, come da lui sentiva i maneggi e i secreti di casa». Gli abusi sfrontati non restarono a<br />
lungo nascosti, «una tale associazione [divenne] cosa pubblica fino nei Campidani e sapendola,<br />
la gente se ne lamentava molto, perché veniva oppressa dal Suddelegato, il quale cercava a tutta<br />
possa di vantaggiare gli interessi degli arrendatori reali, e io stesso più volte l’ho fatto intendere<br />
in confidenza al detto don Giovanni Angelo» (cfr. ivi, v. 64, n. 68, fascicolo non titolato).<br />
18 Lettera e memoria riguardante il progettato acquisto da farsi da D. Damiano Nurra d’uno de’<br />
tre Campidani d’Oristano e dell’infeudazione da farsi della punta di S. Gio. di Sinis per uno<br />
stabilimento di cinquanta famiglie di corallatori, 1762 (ivi, v. 63, n. 4).