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A<strong>ure</strong>lio Bulzatti, Aetica e altre storie | di Patrizia Ferri<br />
di Patrizia Ferri 11 dicembre 2009 In appr<strong>of</strong>ondimenti,<strong>art</strong>i visive | 483 lettori | 3 Comments<br />
Ho conosciuto A<strong>ure</strong>lio Bulzatti a metà anni ’80, alle prese con le prime prove di volo<br />
nella riserva protetta di Plinio De M<strong>art</strong>iis, con altri giovani <strong>art</strong>isti ribellatisi all’afasia<br />
senza parole del concettualismo tautologico. Ricordo che Plinio diceva, riferendosi ai suoi<br />
quadri, che A<strong>ure</strong>lio era uno che non vedeva oltre il proprio naso, dotato indubbiamente<br />
però di un fiuto p<strong>art</strong>icolare, aggiungo io: in realtà quella che suonava come una piccola<br />
paternale, coglieva una sua caratteristica, ovvero quella del cosiddetto viaggiatore<br />
sedentario, un’attitudine che affiora nei suoi ultimi soggetti. Sono, questi,umanità<br />
multi<strong>cult</strong>urale e in transito a cui A<strong>ure</strong>lioattinge senza nemmeno muoversi di casa,<br />
praticamente solo affacciandosi alla finestra del suo studio nel qu<strong>art</strong>iere di Piazza Vittorio,<br />
una zonache con tutta la sua problematicità inter<strong>cult</strong>urale tra Occidente e Oriente, gli<br />
calza assolutamente a pennello.<br />
Dal quadro “Luci della notte” del 1982 una visione allucinata – già influenzata dal cinema<br />
di Tavernier, in p<strong>art</strong>icolare da “La morte in diretta” -, dove compare uno schermo<br />
televisivo che trasmette una crocifissione live, inizia a serpeggiare la sua anomalia, quella<br />
concettualità così spiazzante e poetica tra tecnologia e pennello che oggi si insinua come<br />
un virus contaminando la sua pittura. Essa si astrae sempre di più dalla narrazione e<br />
segue il taglio sintetico di un racconto cinematografico: da quel momento Bulzatti elabora<br />
il racconto come flusso associativo dove si intrecciano morte e vita, ombre e luci, in quella<br />
che lui stesso definiva “una catarsi di rimandi tra museo e vita quotidiana” che dagli anni<br />
’90 si libera completamente dei rimandi colti abbandonandosi pertanto alla realtà così<br />
com’è e procedendo per piccole illuminazioni, che gettano nuova luce sulla pratica pittorica<br />
che procederà da ora in poi per cicli.<br />
Già all’epoca dei suoi esordi, era il più autonomo rispetto alla didascalica prassi<br />
citazionista, praticando un anacronismo personale con un p<strong>art</strong>icolare approccio spaziotemporale<br />
che indubbiamente aveva una marcia in più, un quid che lo differenziava:lui<br />
così gentile, affabile e poco malleabile come la sua pittura apparentemente edificante, ma<br />
che già agli esordi celava il nocciolo duro del vuoto. Quel vuoto che dagli “Altari domestici”<br />
permea i suoi notturni deserti metropolitani di oggi perturbanti, inquietanti e così<br />
sottilmente enigmatici abitati da zingari, extracomunitari, beati e monaci erranti, una via<br />
di mezzo tra mendicanti e mistici, esito di una tormentata gestione creativa a cui ho<br />
assistito in prima persona, densi di rappresentazioni e metafore epocali, dove la metafisica<br />
dell’attesa e la poetica dell’assenza si trasfigurano in un fermo-immagine cinematografico<br />
dove il tempo cronologico non esiste e il presente assume l’assolutezza dell’eterno. E’ una<br />
distillata quintessenza che permea la <strong>cult</strong>ura orientale, eche l’<strong>art</strong>ista respira<br />
quotidianamente, che trasferisce dai suoi esercizi spirituali alla strenua riflessione <strong>art</strong>istica<br />
sulla sacralità dell’individuo e della vita in senso ampio, che può ridare un senso,<br />
ripristinare una bellezza, una poesia del quotidiano in cui è sotteso il mistero dell’indicibile<br />
che l’immagine contiene.<br />
Qualle diA<strong>ure</strong>lio Bulzatti -l’immagine- trasuda di senso, è una vera e propria<br />
manifestazione epifanica davanti a cui arretrano parole e pensieri, “un qualcosa da<br />
affrontare”, come indica l’<strong>art</strong>ista, con tutto il pudore del caso, emblematicamente<br />
simboleggiata dalla donna orientale incinta, dall’aria malinconica che cammina in una<br />
strada deserta, suggerita da una scena di un film del regista taiwanese Tsai Ming Liang:<br />
da una p<strong>art</strong>e rimanda alla condizione della pienezza creativa raggiunta dall’autore a<br />
questo punto del suo trentennale itinerario di ricerca, e, insieme, indica<br />
emblematicamente un’umanità nomade, che attraversa una delle più travolgenti fasi di<br />
cambiamento epocale come l’attuale.<br />
Il tempo della sua pittura, dice,è “la coincidenza tra il farsi di questa e l’immagine che si<br />
palesa, una perfetta fusione tra la sapienza tecnica stilistica e la visualizzazione<br />
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