Assaggi di fame - Filippo Radaelli
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Incaponito per la caponata<br />
(ovvero: <strong>di</strong> che fede è la melanzana?)<br />
25 settembre<br />
Strana cosa, la <strong>fame</strong>: uno sogna una fastosa scorpacciata <strong>di</strong> melanzane con la cioccolata, nella<br />
duplice versione <strong>di</strong> pietanza e <strong>di</strong> dessert, e si risveglia con una voglia matta <strong>di</strong>… Cioccolata? No: <strong>di</strong><br />
melanzane. Non avete idea che voglia m’è venuta <strong>di</strong> melanzane.<br />
Precisamente, d’una caponata. Caponata, va detto, <strong>di</strong> soli vegetali: perciò, sicuro piatto povero.<br />
La cioccolata, infatti, è lusso assai barocco; la coda <strong>di</strong> pesce spada o l’aragosta, valori aggiunti <strong>di</strong><br />
cucina che si giova <strong>di</strong> buona pesca e buona tasca. Ma l’essenza della caponata, no: essa viene<br />
<strong>di</strong>rettamente dalla <strong>fame</strong> dei poveri cristiani. Anzi, non solo dalla loro, come vedremo, ma pure <strong>di</strong><br />
poveri ebrei e, prima, <strong>di</strong> poveri credenti islamici.<br />
Quelli dei secoli passati e quelli <strong>di</strong> oggi, che con un euro e trentacinque cents se ne possono<br />
procurare un barattolino in vetro al supermarket e togliersi la sod<strong>di</strong>sfazione.<br />
Sull’etichetta c’è scritto proprio “Caponata <strong>di</strong> melanzane <strong>di</strong> Sicilia”: peso netto, due etti.<br />
Ingre<strong>di</strong>enti: melanzane, sedano, salsa <strong>di</strong> pomodoro, olio <strong>di</strong> palma, olio <strong>di</strong> oliva, zucchero, olive,<br />
aceto agro <strong>di</strong> vino, capperi e sale. Tutto occhei, secondo tra<strong>di</strong>zione.<br />
Un tempo si usava il miele, ma lo zucchero <strong>di</strong> canna è nella plurisecolare <strong>di</strong>sponibilità, sull’isola.<br />
Si tratta, come si vede, d’un relitto <strong>di</strong> quella cucina in agrodolce che ha remote ra<strong>di</strong>ci indoeuropee,<br />
ha attraversato l’età greco-romana, si è rinnovata con l’apporto dei menu germanici e saraceni ed è<br />
tramontata solo con la rivoluzione (culinaria) francese.<br />
L’etichetta ‘Contorno’ è fuorviante: è il cognome dei fratelli <strong>di</strong> Palermo che invasano questo<br />
prodotto. Ma il suggerimento che essi aggiungono, “Antipasto. Ottimo per accompagnare carni<br />
bianche e rosse. Ideale per uno spuntino” mi lascia perplesso. Antipasto? I poveri che hanno<br />
inventato il piatto non conoscevano antipasti, primi, secon<strong>di</strong> e contorni né spuntini. Conoscevano la<br />
<strong>fame</strong>: e la caponata vegetale era un pasto intero, alla buona. Al massimo, compatibile col pane,<br />
come quello squisito <strong>di</strong> Mo<strong>di</strong>ca: povero, se destinato ai poveri, e ricco e farcito, invece, se riservato<br />
ai ricchi: con una pagnotta sola ci pranzammo lussuriosamente in tre.<br />
Caponata dei poveri, <strong>di</strong>cevo. A darmi ragione è proprio l’etimo del nome: caponata, ormai è sicuro<br />
(lo conferma l’Accademia della Cucina Italiana, vai all'in<strong>di</strong>rizzo www.accademiaitalianacucina.it)<br />
non sarebbe affatto spagnolismo – capirottata, capirotada o capironades – ma <strong>di</strong>scende dritto dritto<br />
dal latino: cauponia, sta a <strong>di</strong>re cibo da taverna, come caupona vale, appunto, taverna (ed anche<br />
ostessa, che della taverna è cuoca e cuore). Taverna, capito? Frequentata come potete immaginare:<br />
gente male in arnese, per solito, senza schiavi in cucina, né matrone premurose. A suo modo, un fast<br />
food.<br />
Le melanzane stesse, badate bene, malgrado il loro elegante aspetto – un po’ torvo, forse, ma<br />
piuttosto chic – godevano <strong>di</strong> brutta considerazione: sprezzate (lo testimonia l’Artusi sul chiuder del<br />
secolo decimonono) come cibo da ebrei. Ma i ricettari delle ricche famiglie israelitiche non ne<br />
fanno mai, <strong>di</strong>co mai, menzione: lo attesta Ariel Toaff nel suo Mangiare alla Giu<strong>di</strong>a, e<strong>di</strong>to dal<br />
Mulino; e se gli si chiede “Com’è?”, risponde: perché era cibo per poveri, ebrei o non ebrei.<br />
Dentro e fuori dei ghetti, insomma, era cibo stimato indegno <strong>di</strong> mense dabbene.<br />
Vero è che fu introdotto in Italia proprio attraverso le comunità giudaiche sefar<strong>di</strong>te che venivano<br />
dalla Spagna, da poco strappata ai Mori, e che importarono, con l’ortaggio, anche il suo nome<br />
originario: bā<strong>di</strong>ngiān (da associare al nome persiano della mela), un poco storpiato in berenjena e<br />
recepito nella favella italica, per più familiare assonanza, in melangian: da cui l’attuale nome.<br />
Ma, come attingo un po’ ancora dal Toaff, un po’ dal sito della emerita Accademia <strong>di</strong> cui ho detto,<br />
un po’ dal saggio <strong>di</strong> Antoni Riera-Melis raccolto nel volume curato dal Montanari per la Laterza, in<br />
alcune regioni il suffisso che si attaccò non fu mela-, ma petro-: donde, petronciano, che è sinonimo<br />
ammesso ed ufficiale della melanzana.<br />
La quale conosce pure i <strong>di</strong>alettali merinzana, maranzana, marignani, malignane, milangiane. E<br />
mulinciani in Sicilia, dove la preziosa caponata è <strong>di</strong> casa.<br />
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