Assaggi di fame - Filippo Radaelli
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Il lavoratore o la lavoratrice (siano essi <strong>di</strong>pendenti o autonomi) ha <strong>di</strong>ritto ad una retribuzione “in<br />
ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un'esistenza libera e <strong>di</strong>gnitosa”.<br />
Il lavoro come <strong>di</strong>ritto è la chiave <strong>di</strong> volta del nostro essere citta<strong>di</strong>ni d’Italia.<br />
Non è perciò senza <strong>di</strong>sagio che, per dare titoli alla mia protesta, ho parafrasato e storpiato quella<br />
norma car<strong>di</strong>ne: L’Italia è una Repubblica sprofondata sul lavoro precario. Non è senza <strong>di</strong>sagio, per<br />
quel significato <strong>di</strong> laica sacralità che attribuisco ai principi fondamentali della Costituzione.<br />
Ma quanta amara verità è in quella deturpazione: col lavoro precario, <strong>di</strong>fatti, si fa ben più sciagurata<br />
e consistente violenza a qualunque idea <strong>di</strong> libertà e <strong>di</strong> uguaglianza.<br />
HOMO SINE PECUNIA…<br />
Il lavoro precario, in certo modo, è un ritorno in<strong>di</strong>etro, ai tempi in cui gli omini<strong>di</strong> bra<strong>di</strong> si davano<br />
alla raccolta ed alla caccia, subendone la penuria.<br />
A ben vedere, il lavoro precario è peggio: non è lavoro, quale sono intesi quello <strong>di</strong>pendente (stabile<br />
o flessibile) o quello autonomo. Lo si <strong>di</strong>ce atipico per questo: è la confessione <strong>di</strong> uno strappo alla<br />
normalità sociale non meno che alla norma giuri<strong>di</strong>ca.<br />
Il lavoro precario non è lavoro perché il salario del lavoro precario non è il salario che abbiamo<br />
visto affacciarsi nella storia alimentare dell’uomo: non è destinato, infatti, a mettere da parte le<br />
riserve per i perio<strong>di</strong> <strong>di</strong> magra o per programmare altro che non sia, <strong>di</strong> nuovo, procacciarsi da<br />
mangiare. In ultima analisi, i cocopro e tutte le forme più o meno fantasiose <strong>di</strong> lavoro atipico<br />
significano niente sicurezza <strong>di</strong> rinnovo, niente carriera, niente tutela sindacale, né orari, né ferie, né<br />
malattia, niente previdenza né ammortizzatori sociali, niente tre<strong>di</strong>cesima né premi <strong>di</strong> produzione né<br />
in<strong>di</strong>cizzazione né buoni pasto. È solo moneta buona per il consumo imme<strong>di</strong>ato: ed infatti, ad un<br />
precario non si concedono prestiti (salvo usurai) né mutui; non trova neppure una casa in affitto<br />
(salvo speculatori) né può comperare una macchina a rate: né nuova né usata. Forse, rubata…<br />
Quel che raccogli consumi. Quando non raccogli, non consumi. Sei alla mercè degli eventi.<br />
La povertà si mescola alla <strong>di</strong>sperazione e fa vero il detto Homo sine pecunia est imago mortis.<br />
È una con<strong>di</strong>zione <strong>di</strong> miseria esistenziale. Quale violenza maggiore allo spirito ed alla lettera della<br />
Costituzione? Quale stravolgimento più grande alla <strong>di</strong>gnità del lavoro?<br />
SENZA REGOLE, TRANNE QUELLA DEL SILENZIO,<br />
CHI È CHE VINCE E CHI È CHE PERDE?<br />
Contro questa <strong>di</strong>suguaglianza, vissuta assai duramente sulla mia pelle, ho dato vita ad una iniziativa<br />
<strong>di</strong> protesta mite e ironica, ma risoluta: il <strong>di</strong>giuno tipico.<br />
È servito a qualcosa? Qualcuno mi ha rivolto la domanda più brutale: Hai vinto o hai perso?<br />
Lei, Presidente, che <strong>di</strong>ce?<br />
Ora ho un lavoro: flessibile, non più precario. Per Res Tipica, non per un improbabile Progetto Catasto.<br />
Ricominciando da redattore or<strong>di</strong>nario, non sono io a peccare <strong>di</strong> presunzione.<br />
Grazie ad un accordo, è stato anche, in qualche modo, sanato il pregresso.<br />
Dunque, alla fin fine, ho vinto?<br />
Non so, Presidente. In questi casi credo, in realtà, che tutti abbiamo perso qualcosa: quanto meno,<br />
tempo e denaro, opportunità e serenità. Ma anche valori più basilari: rispetto e <strong>di</strong>gnità.<br />
Che una ferita cicatrizzi è bene, ma non cancella la lacerazione: la rimargina.<br />
Una comunità che perde (è nuovamente il termine appropriato) il senso delle regole ha in sé un<br />
vulnus che, doloroso in sé, espone a più pericolose infezioni. Una piaga aperta da comportamenti<br />
prepotenti ed arroganti lascia spazio ad ogni possibile delirio.<br />
CENTO GIORNI PENSANDO A MARCO BIAGI<br />
Ho pensato spesso, in questi anni, e <strong>di</strong> più nei 100 giorni della mia protesta, a Marco Biagi.<br />
Non potevo non pensarci: alla legge sui cocopro – sia pure impropriamente, come ha protestato la<br />
sua famiglia – è stato dato il suo nome.<br />
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