Assaggi di fame - Filippo Radaelli
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Il sapore perfetto dei buchi d’olio<br />
5 <strong>di</strong>cembre<br />
Con una copertina molto ben riuscita – il <strong>di</strong>segno d'una rosa in punta <strong>di</strong> forchetta: e sulla quarta,<br />
un’altra grande rosa su un piatto – e un titolo bene abbinato e convincente – “Il sapore perfetto” –<br />
impossibile non adocchiarlo fra gli scaffali da cui <strong>di</strong> frequente qualche volume salta giù e mi<br />
accompagna a casa per farsi conoscere meglio.<br />
Sicché ho afferrato anche l’ultimo romanzo <strong>di</strong> José Manuel Fajardo e ho letto la piega della<br />
copertina: “Il piacere del cibo, l’arte culinaria…”. Ma va? Non lo avrei detto.<br />
Una sfogliata alle pagine è più convincente. Proviamo. Sarà amore?<br />
Quella rosa, mi piace. Mi piace in punta <strong>di</strong> forchetta. Ed in punta <strong>di</strong> penna sembra scorrere<br />
piacevole la lettura sul <strong>di</strong>vano o nel terrazzo, senza indugi né sbavature d’inchiostro su ricette più o<br />
meno strambe, esagerate, in<strong>di</strong>geste al piacere <strong>di</strong> leggere, come s’usa altrove.<br />
Non è il romanzo dell’anno, ma un bel viaggio fra l’infanzia del figlio <strong>di</strong> comunisti nella Spagna<br />
agli ultimi scorci del franchismo, una storia spinosa con la cugina nel Messico giaguaro, una<br />
iniziazione rude e tenera ai fuochi <strong>di</strong> cucina, una incipiente maturazione parigina, dove si alternano<br />
le esperienze gastronomiche ai sobbalzi <strong>di</strong> passione nuova con rumena ballerina, figlia d’un<br />
anticomunista ai tempi <strong>di</strong> Ceaucescu.<br />
Tutto qua; ma i morsi al racconto sono piacevoli.<br />
Ed il <strong>di</strong>giuno tipico? Non mancano gli spunti. A pagina duecentoquarantasette e nelle due seguenti,<br />
il magnifico e aristocratico menu colpisce e contrasta “con la prosaica rudezza <strong>di</strong> quanti andavano<br />
a mangiare quello che preparava” il capocuoco La Regina, straripante <strong>di</strong> saggezza e gay.<br />
Il quale spiega (cito schegge): “Tu là fuori ve<strong>di</strong> un’accozzaglia <strong>di</strong> bruti senz’anima che lavorano<br />
come bestie. Io vedo uomini coraggiosi che sudano e si contorcono in questo caldo fottuto e che<br />
hanno bisogno <strong>di</strong> essere redenti dalla brutalità del loro lavoro. Io sono colui che ricorda loro che<br />
un tempo erano liberi e fieri, e lo faccio offrendo loro la migliore cucina del mondo. La più<br />
squisita. Cucino per loro, per i miei fratelli guerrieri del petrolio. Io do loro da mangiare affinché<br />
vivano con <strong>di</strong>gnità. Ti garantisco che la cosa più bella del cucinare è riuscire a riempire lo<br />
stomaco con immaginazione. E tu cre<strong>di</strong> che non me ne siano grati?”. Un bel programma, eh? Cosa<br />
si <strong>di</strong>ceva, ieri, del bostrengo?<br />
Una sessantina <strong>di</strong> pagine in<strong>di</strong>etro, dove si parla della <strong>fame</strong> del dopoguerra conosciuta dai genitori<br />
dell’io narrante, c’è l’assaggio <strong>di</strong> <strong>fame</strong> che scelgo per oggi. È perfettamente in linea col programma<br />
enunciato da La Regina: riempire lo stomaco con immaginazione.<br />
Si parla dei buchi d’olio, che piacevano alla madre del protagonista. Era il piatto dei poveri<br />
dell’Andalusia: un pezzo <strong>di</strong> pane, possibilmente l’estremità della pagnotta, scavato della mollica.<br />
Nel pozzetto ottenuto in questo modo si versava olio. Un pizzico <strong>di</strong> sale ne faceva primo o secondo<br />
piatto; uno <strong>di</strong> zucchero, dessert. Rimessa la mollica, si che s’inzuppasse bene nel guazzetto, si<br />
mangiava “come se fosse un panino imbottito. Niente. Pura illusione. Ma quanto era buono. Io e i<br />
miei fratelli non abbiam mai sofferto la <strong>fame</strong>, e tuttavia anche noi adoravamo i buchi d’olio. Non<br />
erano più un mezzo <strong>di</strong> sopravvivenza, ormai rappresentavano un piacere”.<br />
Che vi ho detto? Noi conosciamo la bruschetta, il panonto (pane unto). Questa variante mi sembra<br />
ben meritare. Sarà <strong>di</strong>giuno tipico andaluso, con integrazione monferrina-langarola. Conservo ancora<br />
una bottiglietta d’olio particolare, regalatami a Castellero (ma stanno per produrne uguale anche a<br />
Cortemilia, m’hanno detto). È olio <strong>di</strong> nocciole. Ha le stesse qualità chimico-fisiche <strong>di</strong> quello<br />
extravergine d’oliva, del migliore: tanto che certe sofisticazioni, ahinoi, ricorrono proprio all’olio<br />
spremuto da residui <strong>di</strong> nocciola. Peccato, perché così si conferisce valore adulterino ad un succo le<br />
cui caratteristiche organolettiche meritano d’essere godute a sé, senza truffe.<br />
In tempo <strong>di</strong> guerra, quando l’olio d’oliva era quasi introvabile, piccoli torchi casalinghi rime<strong>di</strong>avano<br />
questo succedaneo che, forse proprio perché legato alle mestizie belliche, è stato prontamente<br />
abbandonato con la pace. Bruno Arisio, a Castellero, l’ha recuperato, e presto non sarà più solo.<br />
Il sentore <strong>di</strong> nocciole è pregnante: poche gocce stanno bene su una insalata impegnativa, sui ravioli,<br />
su un tomino <strong>di</strong> capra alpina camosciata.<br />
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