Mo<strong>di</strong>ca quantità: De.Co. anziché Dop? 15 novembre Mo<strong>di</strong>ca può essere la quantità: la qualità deve essere straor<strong>di</strong>naria. Quella <strong>di</strong> Mo<strong>di</strong>ca è iperbolica. Mai nome ha contenuto in se stesso il gusto del paradosso. Di che si parla? Ma <strong>di</strong> cioccolato, si parla! Di che, sennò? Mo<strong>di</strong>ca fa cinquantamila abitanti: un concentrato <strong>di</strong> architetture barocche che mai avrei immaginato, una densità rurale <strong>di</strong> monumenti <strong>di</strong>sseminati per la campagna circostante ed un paniere <strong>di</strong> prodotti tipici <strong>di</strong> eccellente livello: la cottoia (che è fava), il tumazzo (che è formaggio), il pane (in ragione del quale ho visitato la città iblea, tempo fa) e il cioccolato, che fra tutti spicca. Il quale cioccolato è un prodotto che mette in <strong>di</strong>fficoltà il concetto <strong>di</strong> tipico: perché, va da sé, i semi <strong>di</strong> cacao necessari per prepararlo non sono coltivati in loco, ma provengono dal Sud America. Tipica non è la materia prima, perciò, ma la lavorazione, affatto particolare: si esegue a crudo, senza che mai sia raggiunto lo stato liquido: in tal modo i cristalli <strong>di</strong> zucchero non si sciolgono ed il loro sapore (lo zucchero nasce come sapore, nel senso <strong>di</strong> droga: è una postilla al <strong>di</strong>giuno del sette novembre) fa concerto non solo con quello del cacao, ma pure della cannella o del peperoncino, (spezie anch’esse, come si sa). Risultato: una Pastorale, o un’Eroica, che non vi <strong>di</strong>co. Bello, <strong>di</strong>rete, un <strong>di</strong>giuno tipico con il cioccolato. Buoni, niente malizie fuori luogo: vado solo per ricor<strong>di</strong>, che suonano ancora in bocca note <strong>di</strong> allegrett o <strong>di</strong> vivace: magari avessi ancora tavolette <strong>di</strong> quel cioccolato mo<strong>di</strong>cano che la <strong>fame</strong> <strong>di</strong> gioia <strong>di</strong> vivere creò dopo il <strong>di</strong>sastroso e funesto sisma del 1693: lo stesso cui si deve l’esuberante e fastosa urbanistica <strong>di</strong> mezza Sicilia, e <strong>di</strong> Mo<strong>di</strong>ca in specie. Cottola, tumazzo, pane e cioccolato sono protagonisti, a Mo<strong>di</strong>ca, non solo delle vetrine <strong>di</strong> specialità tipiche locali, ma <strong>di</strong> un esperimento fin qui riuscito: eppure, scabroso. Si tratta <strong>di</strong> De.Co.. Sempre brutti, gli acronimi: ma questo è inciampato anche in sventurate vicissitu<strong>di</strong>ni. Perché De.Co. sono (meglio, erano) le Denominazioni Comunali. Un’invenzione, credo sia noto, <strong>di</strong> Luigi Veronelli: e non ne parlo a caso, visto che ieri commentavo una buona iniziativa riferita al vino e promossa dall’Associazione che porta il suo nome. “Il vino – rileggo gli appunti – è territorio; quando si vende vino italiano si vende territorio; tante cose potrebbero andare meglio <strong>di</strong> come vanno adesso, ma più <strong>di</strong> tutte deve migliorare la capacità <strong>di</strong> comunicare il vino italiano, cioè <strong>di</strong> comunicare il territorio. Vale per il vino, ma vale per tutti i prodotti che dal territorio traggono il loro sapore aggiunto”. Le denominazioni d’origine servono a questo: Doc, Docg e Igp per il vino, Dop e Igp (la Sgt ha poche effettive applicazioni) per gli altri prodotti. Non spazientitevi per le sigle: qui non hanno alcuna importanza. Sono tutte denominazioni concesse dalla Commissione europea dopo un primo, approfon<strong>di</strong>to vaglio statale ed un secondo, ancora più severo, degli uffici <strong>di</strong> Bruxelles. Solo questi marchi europei, secondo le norme comunitarie, possono attestare e tutelare un’origine territoriale. Non è un fatto burocratico: è una garanzia <strong>di</strong> serietà. Compri un vino Doc, un olio Dop, una mozzarella Igp, e stai tranquillo che si tratta veramente <strong>di</strong> un vino, <strong>di</strong> un olio, <strong>di</strong> una mozzarella realizzati in quel territorio e secondo le rigorose regole prescritte. I controlli sono così severi che i truffatori sono facilmente smascherati. Senza quei marchi, le truffe sarebbero non <strong>di</strong>s<strong>di</strong>cevole eccezione, ma regola or<strong>di</strong>naria. Bene. Se siamo d’accordo che le denominazioni d’origine sono importanti e che è bene che esse siano <strong>di</strong>sciplinate da un unico organismo garante, che problema c’è? Eccolo, il problema: per ottenere una Dop o un Igp occorre non solo tempo, ma organizzazione e denaro. Occorre, cioè, che la produzione sia significativa e che il beneficio ricavato ottenendo il riconoscimento comunitario ripaghi i costi sostenuti. È il motivo per cui il parmigiano reggiano o la mozzarella <strong>di</strong> bufala campana si sono affrettati ad ottenere il marchio (non loro, si capisce, ne le vacche e le bufale che generosamente prestano il loro latte, ma i consorzi <strong>di</strong> produttori dei due formaggi), mentre il tumazzo mo<strong>di</strong>cano non si è ponsto neppure la questione: non gli conviene. È chiaro, no? E inizia ad esser chiara quale fu l’idea venuta a Veronelli? 70
A questo punto, però, conviene un ciocco-break. Cioccolato mo<strong>di</strong>cano, se potete. De.Co., non Dop. 71
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