Assaggi di fame - Filippo Radaelli
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Molto prima del pane e della pasta<br />
27 settembre<br />
Quando una ricetta prescrive <strong>di</strong> stemperare della farina in una pentola colma d’acqua, non manca <strong>di</strong><br />
raccomandare <strong>di</strong> “mescolare bene affinché non si formino grumi”.<br />
E se i grumi si formano lo stesso, che succede? Che il cuoco maldestro (alias gnocco) non ottiene<br />
l’impasto bene amalgamato, ma rovinato da globuli nodosi: alias gnocchi.<br />
Nei remoti tempi della pietra, in cui non c’erano ancora ricettari d’alcun genere, l’umanità primitiva<br />
era spesso alle prese con ru<strong>di</strong>mentali esperienze culinarie: quel che spesso capitava agli omini<strong>di</strong><br />
gnocchi (per insufficiente cubatura cerebrale) era proprio quanto descritto.<br />
L’esperienza incauta veniva attentamente osservata e due più due, dai e dai, fece finalmente quattro.<br />
Qualcuno iniziò a capire che la granella d’un cereale, d’una leguminosa o d’altra specie, raccolta ed<br />
essiccata per farne riserva, <strong>di</strong>ventava più appetibile se sottoposta ad alcuni successive<br />
manipolazioni: tostatura e triturazione per ottenere farina che, impastata ad acqua, produce pappette<br />
gnoccolose o proprio gnocchi.<br />
Che gli gnocchi siano all’origine delle prime millenarie prove <strong>di</strong> cucina sul fuoco – cucina che va<br />
intesa come trasformazione per mano umana del semplice prodotto crudo, cacciato o raccolto – lo<br />
afferma con buona scienza Corrado Barberis nell’introduzione del volume de<strong>di</strong>cato alla pasta<br />
dell’Atlante dei Prodotti tipici italiani curato dal ‘suo’ Istituto Nazionale <strong>di</strong> Sociologia Rurale<br />
(Insor), e<strong>di</strong>zioni Agra-Eri.<br />
Prima della pasta (fresca o secca) e prima della focaccia azzima e del pane lievitato, venne la<br />
polenta. E prima della polenta – che è già ar<strong>di</strong>to prodotto d’un prolungato e paziente mescolare –<br />
venne lo gnocco.<br />
Non ebbe grande successo, sui lunghi tempi: le vivande <strong>di</strong> grado superiore appena dette (polente e<br />
pappette simili, focacce, pane e pasta d’ogni genere e risma), tutte ottenute a partire dal semplice<br />
impasto <strong>di</strong> acqua, farina e sale, prevalgono in qualunque civiltà alimentare dei cinque continenti.<br />
Lo gnocco resta in<strong>di</strong>etro. Eppure, i segni <strong>di</strong> quei primi tentativi ru<strong>di</strong>mentali, <strong>di</strong> quei grumi – che<br />
solo se intenzionali si chiamano gnocchi – restano evidenti in gran<strong>di</strong> tra<strong>di</strong>zioni giunte fino a noi.<br />
Direi, anzi – e lo <strong>di</strong>cono meglio ancora il professor Barberis ed il suo Atlante – che quel che<br />
apparve a prima vista un esito maldestro <strong>di</strong> cucina tornò a risorsa per reimpiegare avanzi <strong>di</strong> pasti<br />
precedenti. Pasti <strong>di</strong> poveri, com’è evidente, che non sprecavano niente, ma erano sempre alla ricerca<br />
<strong>di</strong> espe<strong>di</strong>enti per rendere il pasto sì economico, però gustoso al tempo stesso.<br />
Lasciatemi fare due passi, prima <strong>di</strong> chiarire questo asserto, in quel giar<strong>di</strong>no <strong>di</strong> sapienza e <strong>di</strong> sorprese<br />
che è l’etimologia. Perché gnocco, termine sconosciuto in latino (è infatti germanico), ha però con<br />
certe parole, usate dai nostri avi, comune origine da quella lingua che fu madre <strong>di</strong> tutte (o molte)<br />
lingue europee ed in<strong>di</strong>e: viene, infatti, dalla ra<strong>di</strong>ce gn-, associata all’idea concreta <strong>di</strong> tenere assieme.<br />
Ed ecco che gnosco, che prima che latino fu termine greco, esprime il concetto <strong>di</strong> tenere in mente:<br />
cioè, conoscere. Una conferma? L’inglese to know: l’etimo è proprio uguale.<br />
Gnocco, similmente, tiene insieme in sé, in quanto cibo cucinato, altri cibi, altri alimenti, cru<strong>di</strong> o<br />
cotti: ed ecco la grande famiglia dei canederli, che sono traduzione alpina, nel nostro Nord Italia,<br />
del termine tedesco knödel (vedete? Di nuovo la ra<strong>di</strong>ce gn-) E cosa tengono insieme canederli e<br />
knödel? Di tutto. Fondamentalmente, farina, uova, avanzi <strong>di</strong> pane stantio sbriciolato e <strong>di</strong> grattugiate<br />
croste e indurite rimanenze <strong>di</strong> formaggi, e rimasugli <strong>di</strong> salumi: con l’aggiunta, poi, <strong>di</strong> erbe varie e,<br />
magari, latte. Un canederlo, insomma, fino a qualche decina <strong>di</strong> anni fa, dava la perfetta conoscenza<br />
(da gnosco, tenete a mente?) <strong>di</strong> tutto ciò che, nell’ultima mesata almeno, se non nell’intera ultima<br />
stagione, era passato sul piatto <strong>di</strong> una famiglia valtellinese o trentina o d’oltre l’Alpe tirolese.<br />
Dovendo tenere assieme tutto quel ben <strong>di</strong> <strong>di</strong>o, i canederli e lo knödel erano piuttosto grossi,<br />
voluminosi. Quelli, assai più minuscoli, della pianura, restarono limitati agli ingre<strong>di</strong>enti classici:<br />
acqua, farina e sale, che lo <strong>di</strong>co a fare?, magari con l’aggiunta d’un po’ <strong>di</strong> burro o, anche, <strong>di</strong> uova.<br />
Farina, per lo più, scelta e <strong>di</strong> grano duro: semola, in breve. Alle volte accompagnata (quando non<br />
del tutto rimpiazzata) da pangrattato.<br />
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