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Assaggi di fame - Filippo Radaelli

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I passi lenti e lunghi<br />

dei monumenti alimentari<br />

17 novembre<br />

Potessi tornare a Mo<strong>di</strong>ca, per fare <strong>di</strong>giuno tipico, mi andrebbe <strong>di</strong> lusso. Mi farei una in<strong>di</strong>gestione <strong>di</strong><br />

magnifico barocco, e metterei sul piatto quattro leccornie del tutto esclusive.<br />

La fava cottoja, per esempio, la trovate solo a Mo<strong>di</strong>ca. Si chiama così perché chiede un minore<br />

tempo <strong>di</strong> cottura rispetto alle fave comuni. È anche più tenera, più dolce e meglio <strong>di</strong>geribile.<br />

Il pane casereccio <strong>di</strong> Mo<strong>di</strong>ca ha un bel colore ambrato, e la fragranza <strong>di</strong> fumo proviene dalle<br />

fascine bagnate che si adoperano per cuocerlo nel forno a legna. L’impasto si fa con acqua, sale<br />

marino e grano duro <strong>di</strong> varietà locali, tra cui il Rossello. La fermentazione è acida, con lievito<br />

madre, che gli conferisce ottima conservazione.<br />

Il tumazzu, formaggio <strong>di</strong> latte vaccino, proviene dall’altopiano mo<strong>di</strong>cano. Per realizzarlo si impiega<br />

caglio <strong>di</strong> agnello. Inizialmente dolce, dopo una stagionatura <strong>di</strong> cinque o sei mesi tende al piccante.<br />

Per lavorarlo si adoperano attrezzi non in uso altrove.<br />

Sul superbo cioccolato <strong>di</strong> Mo<strong>di</strong>ca, ne abbiamo fatto virtuale scorpacciata ieri, con Montalbano<br />

testimonial, e avantieri: non aggiungo nulla e non mi preoccupo. È irresistibile: vivrà.<br />

Ma se uno degli altri tre prodotti sparisce a Mo<strong>di</strong>ca, si butta via per sempre il lavoro <strong>di</strong> secoli.<br />

Magari per ripiegare su inquietanti ogm multinazionali.<br />

La cottoja, il pane <strong>di</strong> grano duro ed il tumuzzu mo<strong>di</strong>cani meritano d’essere salvati. Come?<br />

Chi li produce, ha sempre meno convenienza: la concorrenza è forte, l’industria schiaccia.<br />

Si <strong>di</strong>ce: “Occorre puntare sulla qualità”. Bel <strong>di</strong>scorso. Ripeto la domanda: come?<br />

“Marchio Dop, o Igp”, insiste chi la sa lunga. Bravo. E chi la chiede? E quanto costa? E quando<br />

arriverà? Fatti un poco <strong>di</strong> conti, mi sa che non si può.<br />

“De.Co.?”, suggerì Gino Veronelli. La denominazione comunale tutela il prodotto, lo valorizza,<br />

promuove il turismo gastronomico locale: non chiede gran<strong>di</strong> numeri, costa quasi niente, non<br />

necessita <strong>di</strong> lunghe trafile.<br />

La battuta è facile, e già l’ho fatta: De.Co. vuol <strong>di</strong>re mo<strong>di</strong>ca quantità, prezzi mo<strong>di</strong>ci e tutto a<br />

Mo<strong>di</strong>ca, se parliamo dei prodotti mo<strong>di</strong>cani: insomma, in loco.<br />

“De.Co., no”, risposero Ministero e Commissione UE, spiegando però perché: “È poco sicura,<br />

rischia arbitri e <strong>di</strong>storce la concorrenza”.<br />

Piaccia o meno, c’è del buon senso. E allora? Che sse pò ffa’? Si lascia che la cottoja, il casereccio<br />

ed il tumazzu mo<strong>di</strong>cani soccombano?<br />

Il guaio dell’anarco-gastronomo giornalista era d’essere vero giornalista, appunto, e vero entusiasta:<br />

si lanciò in una battaglia sacrosanta, armato solo della penna e animato dall’angoscia del cronista<br />

costretto a registrare sul giornale la morte <strong>di</strong> centinaia, anche migliaia <strong>di</strong> piccole e gran<strong>di</strong><br />

prelibatezze: minuscoli giacimenti <strong>di</strong> cultura preziosi non meno d’una pala d’altare caravaggesco in<br />

una parrocchia <strong>di</strong> paese, d’una scultura lignea me<strong>di</strong>evale, d’un’architettura rupestre, <strong>di</strong> mille e mille<br />

monumenti <strong>di</strong> cui l’Italia è ricca e s’impoverisce per incuria.<br />

Tanti sono oggi a compiangerlo, Veronelli: veri e finti. Ma la sua De.Co. sembra seppellita insieme<br />

a lui. Invece no. Le buone idee camminano con passi lenti e lunghi: le buone idee hanno altezze e<br />

camminate montanare. Se la strada imboccata è perigliosa, bisogna aver coraggio <strong>di</strong> tornare un poco<br />

in<strong>di</strong>etro, a cercare un’altra via più sicura. Le burocrazie hanno questo <strong>di</strong> <strong>di</strong>fetto: <strong>di</strong>cono che non si<br />

può, e spiegano anche ragionevoli perché. Ma poi, spesse volte, restano sorde – ne so ben io<br />

qualcosa – alle esigenze giuste, ai gri<strong>di</strong> d’allarme che si muovono nella società.<br />

Il professor De Donno ha preso la penna in mano pure lui, ha tenuto l’entusiasmo del bergamasco,<br />

ha scritto non un articolo <strong>di</strong> fondo, ma un libro <strong>di</strong> scienza del <strong>di</strong>ritto: lui è giurista. E da giurista ha<br />

girato e rigirato la De.Co. come un calzino per tirarne fuori una nuova idea.<br />

Quale? Ve ne parlerò martedì: domani sono fuori, fino a domenica: vado per nocciole.<br />

E lunedì vorrei <strong>di</strong>giunare contro le mafie<br />

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