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Assaggi di fame - Filippo Radaelli

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Ma ora tenetevi forte, perché an<strong>di</strong>amo a scoprire che già Enea, tremila anni fa, conosceva qualcosa<br />

che possiamo chiamare pizza e che lui chiamava mensa. Lo racconta Virgilio, libro settimo verso<br />

centoquin<strong>di</strong>ci.<br />

Ecco la scena: l’eroe troiano si è appena fermato a riposare sulle rive del fati<strong>di</strong>co Tevere e, col<br />

figlio Iulo, si prepara il pranzo, che consiste in focacce <strong>di</strong> grano colme <strong>di</strong> frutta selvatica. Occhio,<br />

però: la focaccia non sarebbe da mangiare. Succede infatti che, poiché avevano una vera <strong>fame</strong> da<br />

lupi, i nostri sbocconcellano pure quella: “Heus! Etiam mensas consumimus” inquit Iulus, nec<br />

plura, adludens. Che, tradotto a modo mio suona: “Ahò! Che tajo! Se stamo a magnà anche i<br />

vassoi”, <strong>di</strong>sse Iulo, senz’ aggiunge’ artro. E lì nacque la romanità.<br />

Per gente in viaggio, costretta a mangiare in provvisorio bivacco, la focaccia non è altro che un<br />

vassoio fatto <strong>di</strong> pasta <strong>di</strong> pane: un incrocio, cioè, fra una tovaglietta all’americana e una o<strong>di</strong>erna<br />

pizza capricciosa: molto, molto capricciosa! Una torta?<br />

Ecco, sì: la pizza <strong>di</strong> Enea e dei latini, la mensa, era una sorta <strong>di</strong> torta aperta che poteva contenere <strong>di</strong><br />

tutto: l’importante non era il contenitore, ma il contenuto. Mangiata la farcia, l’involucro andava<br />

buttato.<br />

I greci usavano qualcosa del genere, e nel greco volgere (cioè non antico) veniva detto pitta:<br />

termine che si trova in uso anche nelle lingue ebraica e araba. Questa circostanza fa giustizia, mi<br />

pare, <strong>di</strong> una ipotesi etimologica assai accre<strong>di</strong>tatta ma che mi lascia perplesso: che, cioè, il termine<br />

pizza deriverebbe dal germanico-longobardo bizzo o biss (<strong>di</strong>venuto Bissen nel tedesco moderno),<br />

cioè morso, ovvero boccone: ra<strong>di</strong>ci linguistiche da cui deriverebbero anche i pizzoccheri alpini.<br />

Se proprio occorre trovare un etimo, sono con il Faliscan che, in La Gola, 1983 (citato in<br />

www.cooker.net) deriva pizza da pinza, femminile del participio passato pinsum, o pistum, del verbo<br />

pinsere: che vuol <strong>di</strong>re schiacciare.<br />

E, guarda un po’, pistor significa colui che pesta, cioè che macina, o colui che schiaccia. Chiaro?<br />

Sì, proprio! Mugnaio, fornaio, panettiere: perché la pizza altro non è che una variante del pane. Ma,<br />

accidenti… Che variante! Veramente un tajo!<br />

p.s.: questo assaggio <strong>di</strong> <strong>fame</strong> è de<strong>di</strong>cato all’amica <strong>di</strong> cui dell’incipit.<br />

È il mio modo <strong>di</strong> esserle affettuosamente vicino.<br />

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