nocciole, uva passa, fichi secchi, fettine <strong>di</strong> mela e <strong>di</strong> pera, scorza d'arancio) amalgamata nella mollica <strong>di</strong> pane raffermo e, soprattutto, nel riso (variante pluricentenaria più recente). È un equo scambio <strong>di</strong> golosità fra poveri affamati <strong>di</strong> Cuccagna: io faccio loro omaggio <strong>di</strong> due porzioni <strong>di</strong> melanzane col cioccolato, lui ed Anna della teglia intera <strong>di</strong> bostrengo. Che centellino da giorni con prudente voracità: la <strong>fame</strong> <strong>di</strong> dolcezza va sod<strong>di</strong>sfatta lentamente. 84
Il sapore perfetto dei buchi d’olio 5 <strong>di</strong>cembre Con una copertina molto ben riuscita – il <strong>di</strong>segno d'una rosa in punta <strong>di</strong> forchetta: e sulla quarta, un’altra grande rosa su un piatto – e un titolo bene abbinato e convincente – “Il sapore perfetto” – impossibile non adocchiarlo fra gli scaffali da cui <strong>di</strong> frequente qualche volume salta giù e mi accompagna a casa per farsi conoscere meglio. Sicché ho afferrato anche l’ultimo romanzo <strong>di</strong> José Manuel Fajardo e ho letto la piega della copertina: “Il piacere del cibo, l’arte culinaria…”. Ma va? Non lo avrei detto. Una sfogliata alle pagine è più convincente. Proviamo. Sarà amore? Quella rosa, mi piace. Mi piace in punta <strong>di</strong> forchetta. Ed in punta <strong>di</strong> penna sembra scorrere piacevole la lettura sul <strong>di</strong>vano o nel terrazzo, senza indugi né sbavature d’inchiostro su ricette più o meno strambe, esagerate, in<strong>di</strong>geste al piacere <strong>di</strong> leggere, come s’usa altrove. Non è il romanzo dell’anno, ma un bel viaggio fra l’infanzia del figlio <strong>di</strong> comunisti nella Spagna agli ultimi scorci del franchismo, una storia spinosa con la cugina nel Messico giaguaro, una iniziazione rude e tenera ai fuochi <strong>di</strong> cucina, una incipiente maturazione parigina, dove si alternano le esperienze gastronomiche ai sobbalzi <strong>di</strong> passione nuova con rumena ballerina, figlia d’un anticomunista ai tempi <strong>di</strong> Ceaucescu. Tutto qua; ma i morsi al racconto sono piacevoli. Ed il <strong>di</strong>giuno tipico? Non mancano gli spunti. A pagina duecentoquarantasette e nelle due seguenti, il magnifico e aristocratico menu colpisce e contrasta “con la prosaica rudezza <strong>di</strong> quanti andavano a mangiare quello che preparava” il capocuoco La Regina, straripante <strong>di</strong> saggezza e gay. Il quale spiega (cito schegge): “Tu là fuori ve<strong>di</strong> un’accozzaglia <strong>di</strong> bruti senz’anima che lavorano come bestie. Io vedo uomini coraggiosi che sudano e si contorcono in questo caldo fottuto e che hanno bisogno <strong>di</strong> essere redenti dalla brutalità del loro lavoro. Io sono colui che ricorda loro che un tempo erano liberi e fieri, e lo faccio offrendo loro la migliore cucina del mondo. La più squisita. Cucino per loro, per i miei fratelli guerrieri del petrolio. Io do loro da mangiare affinché vivano con <strong>di</strong>gnità. Ti garantisco che la cosa più bella del cucinare è riuscire a riempire lo stomaco con immaginazione. E tu cre<strong>di</strong> che non me ne siano grati?”. Un bel programma, eh? Cosa si <strong>di</strong>ceva, ieri, del bostrengo? Una sessantina <strong>di</strong> pagine in<strong>di</strong>etro, dove si parla della <strong>fame</strong> del dopoguerra conosciuta dai genitori dell’io narrante, c’è l’assaggio <strong>di</strong> <strong>fame</strong> che scelgo per oggi. È perfettamente in linea col programma enunciato da La Regina: riempire lo stomaco con immaginazione. Si parla dei buchi d’olio, che piacevano alla madre del protagonista. Era il piatto dei poveri dell’Andalusia: un pezzo <strong>di</strong> pane, possibilmente l’estremità della pagnotta, scavato della mollica. Nel pozzetto ottenuto in questo modo si versava olio. Un pizzico <strong>di</strong> sale ne faceva primo o secondo piatto; uno <strong>di</strong> zucchero, dessert. Rimessa la mollica, si che s’inzuppasse bene nel guazzetto, si mangiava “come se fosse un panino imbottito. Niente. Pura illusione. Ma quanto era buono. Io e i miei fratelli non abbiam mai sofferto la <strong>fame</strong>, e tuttavia anche noi adoravamo i buchi d’olio. Non erano più un mezzo <strong>di</strong> sopravvivenza, ormai rappresentavano un piacere”. Che vi ho detto? Noi conosciamo la bruschetta, il panonto (pane unto). Questa variante mi sembra ben meritare. Sarà <strong>di</strong>giuno tipico andaluso, con integrazione monferrina-langarola. Conservo ancora una bottiglietta d’olio particolare, regalatami a Castellero (ma stanno per produrne uguale anche a Cortemilia, m’hanno detto). È olio <strong>di</strong> nocciole. Ha le stesse qualità chimico-fisiche <strong>di</strong> quello extravergine d’oliva, del migliore: tanto che certe sofisticazioni, ahinoi, ricorrono proprio all’olio spremuto da residui <strong>di</strong> nocciola. Peccato, perché così si conferisce valore adulterino ad un succo le cui caratteristiche organolettiche meritano d’essere godute a sé, senza truffe. In tempo <strong>di</strong> guerra, quando l’olio d’oliva era quasi introvabile, piccoli torchi casalinghi rime<strong>di</strong>avano questo succedaneo che, forse proprio perché legato alle mestizie belliche, è stato prontamente abbandonato con la pace. Bruno Arisio, a Castellero, l’ha recuperato, e presto non sarà più solo. Il sentore <strong>di</strong> nocciole è pregnante: poche gocce stanno bene su una insalata impegnativa, sui ravioli, su un tomino <strong>di</strong> capra alpina camosciata. 85
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Il paradosso è questo: che in cond
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