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Terra e gente 2012 - Comunità Montana Valli del Verbano

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<strong>Terra</strong> e <strong>gente</strong><br />

re che si sentissero le grida <strong>del</strong>le donne che abitavano in case confi nanti (1) .<br />

Le intercapedini di Orta e <strong>del</strong> suo paese, Luino, incuriosirono lo scrittore<br />

Piero Chiara che dedicò loro un articolo L’intercapedine apparso sul «Corriere<br />

<strong>del</strong> Ticino» il 18 settembre 1964. Ne addebitava l’esistenza all’«accanita misurazione<br />

<strong>del</strong>le proprietà originarie» (2) e quindi al conseguente ossessivo frazionamento<br />

<strong>del</strong>le proprietà stesse che davano «a quelle strade un andamento a<br />

zig-zag e una larghezza mai costante, anzi continuamente variata da strettoie e<br />

svasamenti che appaiono senza ragione». Continuava poi spiegando che: «[…]<br />

Chiunque vi passi e guardi le case schierate in quell’allineamento bislacco,<br />

pensa che le costruzioni siano come incollate l’una all’altra. Niente affatto.<br />

Ognuna dista dall’altra da trenta a cinquanta centimetri; e se appaiono unite<br />

è solo perché l’intercapedine è stata, forse per prescrizione igienica, sigillata<br />

dal piano stradale al tetto. […] la strettoia, quasi sempre impraticabile che a<br />

casa fi nita veniva sigillata perché nessuno vi andasse a scaricare immondizie.<br />

In alto, lo spiovente dei due tetti vicini converge verso l’intercapedine e vi scarica<br />

il suo stillicidio. Per il che l’intercapedine veniva sempre lasciata aperta<br />

raso terra onde ne defl uissero le acque, o veniva messa in comunicazione con<br />

la fognatura se la strada ne era munita». Sempre nel racconto Chiara riferisce<br />

che ad Orta le intercapedini venivano chiamate piliprand asserendo che certamente<br />

anch’esse custodivano misteriosi segreti. Di una ebbe a conoscerne<br />

la storia: «Il capomastro che non molti anni fa aveva costruito la casa, rispettò<br />

l’uso <strong>del</strong>l’intercapedine. Era un vecchio “maister” e quello era il suo ultimo<br />

lavoro. Quando ebbe fi nito l’opera, una sera, ordinò ai muratori che la mattina<br />

dopo, per prima cosa, sigillassero il “piliprand” fi no al tetto. Poi, attesa la<br />

notte, andò a nascondersi in fondo all’intercapedine, proprio nel mezzo dove<br />

nessuno poteva vederlo; e lì si bevve da un fl aconcino la porzione di veleno<br />

che aveva preparato col disegno di farsi seppellire nella sua ultima casa e di<br />

rendersi irreperibile per sempre.<br />

Al mattino un garzone udì dei gemiti e il capomastro fu scoperto, ormai<br />

morente, nel fondo <strong>del</strong> “piliprand”».<br />

Alcuni giorni dopo la pubblicazione <strong>del</strong>l’articolo un lettore intervenne sullo<br />

stesso giornale per spiegare l’etimologia di piliprand: «[…] la espressione pili-<br />

(1) W. LATTES, San Gimignano come Cinecittà: quanti fi lm sotto le torri, in «Corriere <strong>del</strong>la Sera»,<br />

7 giugno 1994.<br />

(2) L’articolo venne ripubblicato il 19 settembre 1964 su «Il Gazzettino» di Venezia con il titolo<br />

Ultimi piliprand e poi, con lo stesso titolo, inserito nella raccolta P. CHIARA, Gli anni e i giorni.<br />

Nota introduttiva di Federico Roncoroni, Edizioni Studio Tesi, Pordenone 1988, pp. 163-168.<br />

Dal dattiloscritto con correzioni autografe, conservato nel Fondo Piero Chiara presso i Musei<br />

Civici di Varese, si desume che il testo fu scritto ad Orta nel mese di agosto <strong>del</strong> 1964 quando<br />

Chiara fu «ospite di un amico che ha la casa affacciata al lago, davanti all’isola di San Giulio».

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