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Unità di Apprendimento, classe 3^ - scuola e cultura - rivista

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Aprile - Maggio - Giugno 2007 85<br />

mancanza <strong>di</strong> <strong>di</strong>scernimento precipita l’uomo nell’assurda utopia generando l’orgoglio <strong>di</strong>sumano, ve<strong>di</strong> don Rodrigo nella<br />

<strong>di</strong>sperata voglia <strong>di</strong> avere Lucia, ad<strong>di</strong>rittura non amandola e nemmeno conoscendola come bene, per seguire (chi non lo<br />

sa?) un istinto significativo <strong>di</strong> o<strong>di</strong>o nei confronti <strong>di</strong> amore. Perché, se o<strong>di</strong>o non fosse nella mente del personaggio<br />

manzoniano, il riso degli umili sarebbe gioia infinita (e non solo amarezza) e l’orrido tiranno non esisterebbe perché<br />

regnerebbe amore.<br />

Ma, se così non è, non può la collera che nell’uomo fomenta pensieri d’invi<strong>di</strong>a e gelosia non accrescere l’o<strong>di</strong>o del tiranno<br />

a <strong>di</strong>smisura per far soccombere in questo mondo il buono. È il caso <strong>di</strong> Renzo, il giusto che non può non trionfare nella<br />

lotta contro il male, significando il personaggio il potere <strong>di</strong> umiltà, il bene (insomma) che rinsavisce l’uomo torturato<br />

dall’ira dei violenti per cui presto torna il sole nella mente <strong>di</strong> chi soffre, con la sconfitta naturalmente del male […]” 12 .<br />

Dante e Manzoni furono dunque uguali nel professare “una morale integra e intransigente […] con la <strong>di</strong>fferenza che la<br />

voce <strong>di</strong> Dante tuonava più forte dall’alto della sua posizione <strong>di</strong> giu<strong>di</strong>ce delle umane colpe, che - come <strong>di</strong>ce Gravagnuolo -<br />

ad<strong>di</strong>tava allo stesso tempo agli uomini il cammino da percorrere per ritrovare la strada smarrita, mentre la voce <strong>di</strong><br />

Manzoni era più <strong>di</strong>messa e pacata, ma pure tanto insinuante e suadente, più rispondente, insomma, alla sua indole ed<br />

alle esigenze e ai gusti del suo pubblico e dei tempi a venire”, anche se Manzoni “per tutta la vita - sostiene Cristoforo<br />

Fabris - si è conservato ammiratore, non però cieco, <strong>di</strong> Dante”.<br />

“Ammiratore”, quin<strong>di</strong>, “non cieco”, nel senso che da illuminista qual era, era poi <strong>di</strong>ventato romantico ma con certo pudore,<br />

senza - <strong>di</strong>ciamo - fanatismo <strong>di</strong> alcun genere. Infatti non riuscì mai, Manzoni, ad accettare “pienamente” certa “corposa<br />

goticità dantesca”, lui che “barbaro” non si sentiva né “plebeo”. Pre<strong>di</strong>lesse, infatti, in Renzo la borghesia in ascesa e non<br />

proprio il popolo minuto o povero nell’autenticità della sua con<strong>di</strong>zione sociale. Ma, nonostante ciò, accoglieva - fa<br />

intendere Fabris - con certa enfasi e gioia alcuni versi del Para<strong>di</strong>so, l’essenza dell’arte, insomma, sia pur nei termini<br />

contrad<strong>di</strong>stinti da certa giustificata cautela nel <strong>di</strong>re sulle cose, in maniera comunque originale e innovativa.<br />

Secondo Renzo Negri - e ciò è negli Atti del VII Congresso Nazionale <strong>di</strong> Stu<strong>di</strong> Manzoniani - “non siamo <strong>di</strong> fronte a un<br />

contegno profetico, né mimetico, ma a un contegno pedagogico; c’è un maestro che comunica e un <strong>di</strong>scepolo che riceve<br />

e fa suo un Verbo che trascende entrambi e che si pone come verità e amore senza confini; la <strong>di</strong>dattica è quella<br />

maieutica eterna e specifica del tomismo.<br />

È quin<strong>di</strong> presente, nell’appello, sia il dato realistico che l’autorità morale, ma con una funzione che non è - sostiene<br />

ancora Negri - né puramente tecnico-narrativa né puramente messianica”, trovandoci del resto noi “in una misura meno<br />

astrattamente sintomatica e più concretamente umana […] in un rapporto educativo fondato sull’amore”. È probabile che<br />

Dante non avesse per il suo pubblico un’opinione <strong>di</strong>versa da questa, ma non acconsentì - questo è certo - ai suoi voleri,<br />

a quelle esigenze per le quali, per trattare un problema, bisognava tener conto dei vari punti <strong>di</strong> vista. Perché Dante<br />

procedeva sui suoi passi in<strong>di</strong>pendentemente dai giu<strong>di</strong>zi altrui, comunque nella certezza <strong>di</strong> non sbagliare. Il lettore è,<br />

infatti, immaginato nella Comme<strong>di</strong>a - come del resto afferma giustamente Negri - simile a “un <strong>di</strong>scepolo che desidera <strong>di</strong><br />

sapere, un <strong>di</strong>scepolo amato, ma che tace e a cui non è richiesto che <strong>di</strong> ricevere, <strong>di</strong> con<strong>di</strong>videre con ogni sforzo le<br />

straor<strong>di</strong>narie esperienze che gli propone, con superiore spirito caritativo, il maestro”. Viene così rifiutata la tesi<br />

dell’Auerbach secondo la quale tra l’autore della Comme<strong>di</strong>a e il lettore bisognava vedere una sorta <strong>di</strong> relazione simile a<br />

quella del profeta con il suo popolo, ispirata all’amor cristiano; ma anche quella dello Spitzer che in Dante vedeva<br />

un’improvvisa illuminazione <strong>di</strong>vina possibile del resto a ciascun cristiano, e nulla più.<br />

In Manzoni troviamo invece l’esperienza - <strong>di</strong>ce poi Negri - <strong>di</strong> “trattar col lettore come tratta con sé. Lo invitava infatti a<br />

cercare in sé le emozioni dei suoi personaggi coinvolgendolo anche emotivamente nel mondo fantastico della vicenda<br />

narrata: Lucia si staccò dalla madre, potete pensar con che pianti” (Cap.XXVI). Questo perché si ha a che fare con due<br />

personalità vissute in momenti completamente <strong>di</strong>versi, separate da cinque secoli <strong>di</strong> <strong>di</strong>stanza, secoli che non hanno per<br />

niente mutato nella mente dei due - conclude Negri - “il senso d’un altissimo impegno verso il pubblico”. Una certa<br />

convergenza tra i due possiamo in<strong>di</strong>viduarla anche nelle varie categorie <strong>di</strong> appelli rivolti ai lettori. Quelle dantesche<br />

riguardano una corretta interpretazione artistica e dogmatica del testo; l’invito a sentire e a vedere ciò che il poeta ha<br />

sentito e veduto. Quelle manzoniane possono riguardare inviti a immaginare sentimenti <strong>di</strong> personaggi, a ricordare dati<br />

storici, a ritenere i vari aspetti morali nelle vicende narrate. In fondo le vicende <strong>di</strong> tutti noi in un contesto ove i problemi<br />

che si avvicendano sono sempre gli stessi e che possiamo mitigare e risolvere nell’abbandono ai voleri della<br />

Provvidenza. Questo per il fatto che “Dante aveva una profonda <strong>cultura</strong> filosofica basata sulla conoscenza dei testi della<br />

patristica, scienza dei dotti padri della Chiesa, in particolare <strong>di</strong> Sant’Agostino e San Tommaso, e dei nuovi classici; il<br />

grande lombardo, invece, oltre a questo, conosceva la filosofia dell’età moderna e aveva assimilato la <strong>cultura</strong><br />

illuministica, su cui aveva basato la sua formazione […]. Entrambi invero fecero della loro opera strumento <strong>di</strong> redenzione<br />

delle coscienze e <strong>di</strong> redenzione umana e per questo non tralasciarono <strong>di</strong> trattare alcun campo della vita, da quello sociopolitico-economico<br />

a quello religioso e morale” 13 .<br />

Significativo un verso <strong>di</strong> Dante per comprendere appieno la sua volontà <strong>di</strong> trattare molto da vicino col lettore, per fini<br />

educativi:<br />

“Or ti riman, lettor, sovra ’l tuo banco…<br />

s’esser vuoi lieto assai prima che stanco”(Para<strong>di</strong>so X, 22-24).<br />

S’intuisce, infatti, un sentimento d’amor vero nei confronti <strong>di</strong> un interlocutore dal poeta considerato fratello e non solo<br />

amico, o persona da amare.<br />

Anche Manzoni, non meno <strong>di</strong> Dante, spesso <strong>di</strong>aloga col lettore quasi per coinvolgerlo in una sorta <strong>di</strong> amichevole<br />

contrad<strong>di</strong>ttorio in un’atmosfera <strong>di</strong> giubilo non senza risultato, anzi permeato <strong>di</strong> riconoscente risolutiva vitalità non solo<br />

espressiva. Del resto - sostiene Negri - Manzoni “amava foggiarsi un interlocutore e risolvere in contrad<strong>di</strong>ttorio una<br />

lettera, un saggio, una <strong>di</strong>fesa, un racconto, una qualsiasi scrittura”. Riferendosi ai negatori del “fiorentinismo linguistico”<br />

chiede infatti <strong>di</strong> “litigar con loro, giacché è la maniera che trova più spiccia per esporgli i motivi della sua qualsiasi

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