RETROMANIA - Sentireascoltare
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matt bErry - WitChazEl (aCid Jazz rECordS, marzo 2011)<br />
Genere: folkpoppsychproGrock<br />
Un comunicato stampa - che non ci è pervenuto, rendendo la quasi casuale scoperta di questo disco<br />
una totale sorpresa - avrebbe potuto iniziare informandoci che Witchazel è il terzo album di Matt Berry,<br />
pubblicato da lui stesso nella primavera 2009 solo su web (in download gratuito per un giorno) e finalmente<br />
stampato e distribuito dai signori di Acid Jazz.<br />
E chi diavolo sarebbe questo Matt Berry? Potremmo saltare la domanda e arrivare dritti al punto, dicendo<br />
che Witchazel è uno di quei dischi che non ci capitava di ascoltare da un bel po’. MGMT, Syd Barrett,<br />
Genesis, Pet Sounds, vecchie colonne sonore blaxploitation, Incredible String Band, Doors tutto<br />
frullato insieme con gusto massimalista e squisitamente citazionista, in una sorta di concept avventuroso<br />
ma leggero - e provvidenziale - come un bicchier d’acqua in agosto. E però non possiamo non dirvi che<br />
Matt Berry, come mestiere principale, fa il comico (in Inghilterra, con show televisivi di culto come Snuff<br />
Box e The IT Crowd; roba da noi pressoché sconosciuta).<br />
Lo scarto, volendo, è tutto qui. Perché fare un album - e per “fare” intendiamo scrivere, interpretare,<br />
arrangiare, produrre, suonare quasi interamente - che sia contemporaneamente omaggio e parodia,<br />
facendolo apparire dannatamente serio (nella fedeltà formale, nella genuinità dell’ispirazione, nella<br />
puntualità dei riferimenti) e insieme dannatamente ironico (il gusto per il cliché, la citazione musicale<br />
intelligente e spudorata, i testi sopra le righe), converrete che non è proprio da<br />
tutti. Basterebbe questo, davvero. O basterebbe ascoltare Woman, ballatona<br />
strappacuore alla Moody Blues che quando arriva l’assolo di chitarra non puoi<br />
non chiederti “ma ci è o ci fa?”, e poi tornare a riascoltarla perché ti commuove<br />
e ti fa ridere. Perché non c’è niente di più serio di un comico quando fa sul serio,<br />
o niente di più comico di un comico quando fa sul serio.<br />
Oppure basterebbe dire che Matt Berry è nato nel 1974, e che quindi il suo<br />
esercizio di emulazione è reso ancor più impressionante dal non esser stato<br />
testimone diretto di quella stagione musicale in cui folk, prog, psichedelia e acid rock convivevano<br />
beatamente tra i solchi di doppi LP dalle copertine evocative e pretenziose. Un universo misterioso di<br />
foreste, campagne, falchi, uomini incappucciati, tarocchi, elfi, maghi, streghe, incanti pastorali, scenari<br />
e filastrocche à la Wicker Man. Affrontato sempre nel modo di cui sopra.<br />
Oppure basterebbe dire che Matt Berry, quando gli capita di suonare dal vivo, sul palco fa salire Geno<br />
Washington (sì, oh-oh-oh-Geno!). Oppure basterebbe dire che Matt Berry, se chiede a Paul McCartney di<br />
fare un salto in studio e cantare due versi nella sua Rain Came Down, quello lo fa (e il fatto che entrambi<br />
sembrino piuttosto high non fa che accrescere il fascino della cosa). Oppure basterebbe dire<br />
(7.6/10)<br />
antonio puglia<br />
Non che sia rimasto inattivo, il funambolico bassista,<br />
benché ai progetti intrapresi nel frattempo difettasse<br />
il senso d’avventura di Pork Soda e Sailing The Seas Of<br />
Cheese, capolavori di crossover tra musica nera e hard<br />
rock la cui grandezza stava nel trascendere lo stile e attingere<br />
anche altrove, cioè da squadrature progressive<br />
(i King Crimson e Rush fusi nella mini suite Jilly’s On<br />
Smack e girati in dub candeggiato per l’ottima Moron<br />
TV), da venature etniche - tanto Medio Oriente anche<br />
qui - e da un blues-folk beefheartiano degno di Tom<br />
Waits. Il quale figurava anche in Antipop, scivolata nel<br />
manierismo come del resto il precedente Brown Album.<br />
Aggirati da Green Naugahyde nell’unico modo possibile<br />
per un’avanguardia oggi classica: guardando indietro in<br />
termini d’ispirazione, metodologia (produce lo stesso<br />
Claypool; l’album esce per la sua Prawn Songs con l’appoggio<br />
della ATO) e line-up, col sempiterno chitarrista<br />
Larry LaLonde e il primissimo batterista Jay Lane che<br />
non riuscì a comparire sull’esordio Suck On This. Bene<br />
così, siccome il passato riporta vigore e asciuttezza a<br />
un funk-metal contorto e oscuro, intriso di stranezze da<br />
baraccone e sarcasmo tagliente; a una miscela personalissima<br />
mai scaduta in macchietta come per i Red Hot<br />
Chili Peppers ridicolizzati dalla clintoniana Tragedy’s A’<br />
Comin’.<br />
Intatta la tecnica esecutiva - strabiliante mai fine a se<br />
stessa - e scontati siparietti e qualche lungaggine, piacciono<br />
soprattutto la convulsa cavalcata Hennepin Crawler<br />
e una sinistra Last Salmon Man (sorta di floydiana<br />
One Of These Days infarcita di cabarettistici stacchi), il<br />
curioso spirito post-lisergico di Green Ranger e la riassuntiva<br />
sarabanda Extinction Burst. Cose che suonano<br />
“come vent’anni fa” con la saggezza odierna, e miglior<br />
complimento crediamo non ci sia.<br />
(7/10)<br />
gianCarlo turra<br />
pruriEnt - bErmuda drain (hydra hEad,<br />
luglio 2011)<br />
Genere: noise-wave<br />
Con Dominick Fernow aka Prurient avevamo perso i<br />
contatti da un paio d’anni a questa parte. Le antenne<br />
radar dei noise-addicted lo avevano avvistato al fianco<br />
dei Cold Cave in Cherish The Light Years o su qualche<br />
sotterraneo split vinilico in edizione limitata. Ora mr. Hospital<br />
Productions riesuma il suo progetto madre e, quasi<br />
a mettere le cose in chiaro, sciorina un disco-bomba<br />
in cui da un lato addolcisce la propria incompromissoria<br />
offerta musicale, dall’altro gioca sullo stesso terreno dei<br />
rigurgiti -wave di questi anni ’00 e li schianta tutti.<br />
Bermuda Drain sembra infatti la summa del Fernowpensiero<br />
degli ultimi due anni, ovvero il sadico attacco<br />
noise della casa madre applicato alle suggestioni black<br />
(il progetto black-metal Ash Pool), minimal techno (Vatican<br />
Shadow) e cold-wave targate Cold Cave, modulate<br />
in una forma-canzone quasi definita.<br />
Tra attacchi black-metal synthetico truce e ossessivo,<br />
squarciato da voci malefiche e lampi di noise su tessuti<br />
synth-wave cadenzati (l’opener Many Jewels Surround<br />
The Crown), ebm posseduta (A Meal Can Be Made), ambient<br />
drogata e narcolettica (una Palm Tree Corpse che<br />
parte da Vangelis e si slabbra verso modalità Wolf Eyes<br />
macilente e putrefatte) e le incessanti derive texturali<br />
ora ambient-industrial (Sugar Cane Chapel), ora limitrofe<br />
alla kosmische (Myth Of Sex, ovvero dal pulviscolo harsh<br />
noise alle lande cosmiche di un romanticismo e una solitudine<br />
abbacinante in 5 minuti scarsi), l’album offre<br />
una interessante via di fuga dal noise estremo tipico<br />
della casa.<br />
E la cattiveria, si chiederanno gli hardcore fans più esigenti?<br />
C’è eccome. Nascosta più tra le pieghe delle lyrics<br />
(take a tree branch and ram it inside you apre la citata<br />
Palm Tree Corpse) e nel senso del tutto, disturbante e<br />
annichilente nella sua algida grazia as usual, che esibita<br />
in muri di suono harsh come in passato. Un disco che<br />
segna lo spartiacque tra il Prurient che fu e quello che<br />
sarà e che si offre come la più credibile manifestazione<br />
del futuro noise a stelle&strisce, necessariamente alla<br />
ricerca di nuove modalità per uscire dalle paludi di un<br />
suono ormai cliché.<br />
(7.2/10)<br />
StEFano piFFEri<br />
randy nEWman - SongbooK Vol. 2<br />
(nonESuCh, maggio 2011)<br />
Genere: classico americano<br />
Se parole come “Genio” e “incompreso” hanno un qualche<br />
significato, potete trovarne un’ampia fetta in Randy<br />
Newman. Miracoloso a sé che, senza partire dal country<br />
e/o dal folk, ha creato una cifra autoriale unica mettendo<br />
assieme le colonne sonore scritte dagli zii e la scrittura<br />
pianistica, i musical e il gospel, George Gershwin,<br />
Cole Porter e Ray Charles. Se vi pare poco, c’è sempre<br />
l’umanità cinica e impietosa con cui sferza e tratteggia<br />
personaggi e racconta storie. Che si tratti dell’amato sud<br />
degli Stati Uniti, delle persone di bassa statura o dello<br />
schiavismo, in quaranta e rotti anni di carriera abbondano<br />
i Grammy in bacheca e - cosa più importante - le<br />
Canzoni con la maiuscola qui oggetto di “rilettura”.<br />
Secondo pannello di una trilogia, The Randy Newman<br />
Songbook Vol. 2 scarnifica (come il predecessore e come<br />
l’uomo suole fare dal vivo) le sonorità a voce e pianoforte<br />
permettendo così alla scrittura di brillare ulteriormente.<br />
Sedici brani scorrono agili la gamma tra tristezza<br />
e sarcasmo e tracciano un arco di quattro decenni<br />
dal debutto, AD 1968, fino al più recente Harps And<br />
Angels; a ogni passo si impongono una raffinatezza e<br />
una sincerità senza pari, che rafforzano ritratti di vita<br />
amari, ironici e talvolta assurdi di fatto inscindibili dalle<br />
liriche. E che invogliano l’ascoltatore a tornare su classici<br />
conclamati, oppure riscoprire cose a torto considerate<br />
“minori” mentre l’autore si guarda indietro con la voce<br />
di oggi. La propria essenza nelle canzoni, costui gioca<br />
un ennesimo ineffabile (s)gambetto.<br />
(7.2/10)<br />
gianCarlo turra<br />
rEd hot Chili pEppErS - i’m With you<br />
(WarnEr muSiC group, agoSto 2011)<br />
Genere: pop rock<br />
Dopo cinque anni di silenzio tornano i Red Hot Chili<br />
Peppers col decimo album di inediti. Notizia nella no-<br />
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