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RETROMANIA - Sentireascoltare

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WilCo - thE WholE loVE (dbpm, SEttEmbrE 2011)<br />

Genere: folk-rock-pop<br />

L’inizio è un funky robotico, sincopi algide e polverose scarabocchiate sulla piattaforma krauta. D’un<br />

tratto si alza una cortina di mellotron come un sipario fibrillante, ed ecco avviarsi la canzone col suo<br />

tribolare soul futuribile, senso di allarme e angoscia pastosa nella litania stropicciata del canto, ma anche<br />

quel retrogusto di familiarità differita, rifratta, sparsa. Tanto è radioheadianamente riuscita che Thom<br />

Yorke si morderà i gomiti. Poi, quando sospetti che il solco sia stato già del tutto tracciato, s’imbizzarrisce<br />

la vena elettrica dapprima con foga controllata à la Wire e poi tutto un affilare e deragliare di watt, una<br />

concitata incandescente acuminata scompostezza, atto di sacrosanta devozione al dio del rock acido<br />

(sempre sia benedetto l’ingresso in squadra di Nels Cline).<br />

Questi, più o meno, sono i sette minuti abbondanti di Art Of Almost, traccia d’apertura di The Whole<br />

Love, ottavo lavoro targato Wilco. Uno di quei pezzi che stabiliscono il centro di gravità, e che ti fa venire<br />

voglia di esserci ogni volta che lo eseguiranno dal vivo. E’ il tipico modo di Tweedy e soci di scombussolare<br />

la gerarchia dei segni, di smarcarsi da una pur arguta e accoratissima consuetudine. Proprio come<br />

la malattia, il disagio, certi cataclismatici incroci di eventi ti fanno deviare dal flusso confortevole della<br />

quotidianità. La musica dei Wilco in fondo è (solo) questo: un doppio filo che intreccia calore e disagio,<br />

l’uno e l’altro necessari per tenere in piedi la carcassa, mentre sullo sfondo si consuma il conflitto muto<br />

tra ciò che resta del Sogno Americano e la semplice, implacabile evidenza della realtà. E’ uno specchio<br />

rotto in un milione di pezzi, la realtà vista dal pianeta Wilco. E questo spiega quel procedere dei testi<br />

attraverso frasi che sembrano frammenti di una narrazione sfuggente, mai del tutto definita se non<br />

lungo il filo pastoso - pastosamente indefinibile - delle emozioni.<br />

Le undici tracce che completano il programma ondeggiano con una certa scaltrezza tra verve errebì<br />

contagiata power pop (il boogie screziato fuzzy di Standing O, la battente acideria di I Might, l’accorato<br />

disincanto vagamente Kinks di Whole Love) e ballate country folk impegnate a mitigare solennità tristarelle<br />

con un filo di speranzosa morbidezza (il tepore allibito e l’estatico vitalismo à la Jim O’Rourke<br />

di Rising Red Lung, la mestizia amniotica di Open Mind, il Brian Wilson sognato dai Mercury Rev di<br />

Sunloath). Tutto molto più canonico quindi rispetto alla opening track, eppure tra i fili della trama e nei<br />

margini sbrecciati si annidano pur sempre quei tipici vibrioni d’irrequietezza post-contemporanea, che<br />

siano dissonanze elettriche, perturbazioni sintetiche o il respiro onirico degli archi a spaesare le palpitazioni<br />

da front-porch (Black Moon).<br />

Con questo disco insomma i Wilco tornano alla grande in carreggiata, recuperano<br />

il senso del loro percorso rispetto all’eccesso di normalità del pur non<br />

disprezzabile predecessore. La sensibilità frantumata e ricomposta di Tweedy,<br />

quella meravigliosa sensazione di sgretolamento emotivo scampato d’un<br />

soffio ma sempre in agguato appena dietro l’angolo, può così affiorare anche<br />

in circostanze apparentemente sdrammatizzate come l’incalzante Born Alone<br />

(ritornello Tom Petty e incandescenze flaminglipsiane) e nello swinghettino<br />

à la Randy Newman di Capitol City. Per poi infine spalmarsi con struggente<br />

gravità orizzontale nella lunga One Sunday Morning, via crucis soffice che assolve la mestizia celebrandone<br />

la presenza ineluttabile come una lenta, ripetitiva, liberatoria rivelazione. Non è l’album migliore<br />

dei Wilco solo perché ci hanno già consegnato i loro capolavori. Ma è un ottimo album di una band<br />

(ancora) straordinaria.<br />

(7.4/10)<br />

StEFano SolVEnti<br />

Blur agli Oasis e dagli Oasis ai Blur sopra un retino da ping<br />

pong firmato Supergrass. Un gioco serissimo dove l’amato<br />

houmor inglese non c’entra proprio. Parte New year’s day<br />

e via di a-a-a-ao alla Girls and Boys, poi è il turno di Electric<br />

day e sotto con i falsetti dei Gallagher che neanche in Live<br />

forever. Il resto è fotocopia, un susseguirsi riff tintinnanti che<br />

non infilano una strofa-ritornello con un minimo di personalità<br />

(Darling buds of may o Still here) e lo fanno con dei<br />

testi che l’Inglese è proprio meglio non saperlo.<br />

La loro forza sono 36 minuti di scanzonatezza. Niente<br />

che non diventi trascurabile al secondo ascolto. Dopo i<br />

Viva Brother, i Beady Eye vi sembreranno migliori e Noel<br />

Gallagher sarà John Lennon.<br />

&amp;amp;amp;amp;amp;amp;amp;amp;amp;lt;br&am<br />

p;amp;amp;amp;amp;amp;amp;amp;amp;gt;<br />

(4.5/10)<br />

Edoardo bridda<br />

WEyES blood and thE darK JuiCES - thE<br />

outSidE room (not not Fun, SEttEmbrE<br />

2011)<br />

Genere: DesertshorinG<br />

Di tutte le epigoni di Nico, Weyes Blood merita di essere<br />

considerata una delle più rispettose, ancorchè una delle<br />

più efficaci. Tolti gli esperimenti di Fursaxa che con<br />

Kobold Moon dimostrava di sapersi sganciare dal verbo<br />

di Marble Index per arrivare ad un’espressione del<br />

tutto propria, Natalie Mering al suo debutto su Not Not<br />

Fun dopo una serie di episodi a bassissima circolazione,<br />

si accomoda padrona e sicura sul cavallo bianco di Desertshore.<br />

Da li, parte per un suo excursus personale che<br />

se da un latro prende in prestito i goticismi astratti e sepolcrali<br />

dell’austrice di Janitor Of Lunacy, dall’altro centra<br />

un melodismo austero, minaccioso e intimidatorio che<br />

la porta dalle parti di una Catherine Ribeiro meno aggressiva.<br />

La strumentazione è quella d’ordinanza: organi<br />

da sepolcro perduto messi al servizio di un ensemble distorto<br />

e sfumato che la produzione di Graham Lambkin<br />

ex Shadow Ring si impegna nel valorizzare aumentando<br />

il senso di distacco temporale da una musica già sufficientemente<br />

“eterna” di per sé. Madrigali devozionali che<br />

virano verso un goticismo storto e malevolo come nelle<br />

nenia drogate e di-sfatte di Storms That Breed o Candyboy<br />

o ancora meglio come nell’evocazione esoterica su<br />

chitarra arpeggiata di Dream Song e nell’inno putrefatto<br />

e senza pathos di Romneydale fino agli episodi conclusivi<br />

che mostrano altrettanti ipotesi di percorso verso un<br />

futuro più incerto che mai.<br />

Da un lato, l’astrattismo surrealista di In The Isle Of Agnitio<br />

su cui moltissimo influisce il gusto per il vuoto distratto<br />

di Lambkin, dall’altro l’austerità monastica di His Song<br />

che vira sempre di più verso una decadenza maligna<br />

sull’onda di un droning psichedelico ed effettato che fa<br />

tremare le ossa. Nel suo genere un piccolo capolavoro.<br />

(7.5/10)<br />

antonEllo ComunalE<br />

WhitE hillS - hp-1 (thrill JoCKEy, giugno<br />

2011)<br />

Genere: space rock<br />

Aspettavamo al varco i White Hills per sapere che direzione<br />

avrebbero preso dopo la svolta iniziata un anno<br />

fa con il disco omonimo. Il nuovo Hp-1 da una risposta<br />

parziale, lasciando aperti ancora parecchi conti.<br />

I suoni muscolari da rock’n’roll in pelle duro e puro<br />

vengono in parte accantonati, pur prevalendo ancora<br />

quando i White Hills si adagiano nella sicurezza di tirate<br />

spacey (No Other Way) e hard (The Condition Of Nothing).<br />

Una vena sperimentale traspare comunque forte del disco:<br />

il battito motorik sporcato di noise di Paradise, il<br />

glitch tribale di Monument, la doppietta d’elettronica<br />

ambientale A Need To Know / Hand In Hand.<br />

Un buon disco in cui alla fine rimane la sensazione che<br />

sia il peso degli ospiti a tirare fuori il meglio. In particolare<br />

in Paradise e nella stupenda Monument la mano di<br />

Kid Millions si sente tutta. Quando sono lasciato a loro<br />

stessi, i White Hills tornano spesso a un più canonico<br />

hard-space-rock (Hp-1, Upon Arrival).<br />

(6.8/10)<br />

FranCESCo aSti<br />

WilEy - 100% publiShing (big dada<br />

rECordingS, giugno 2011)<br />

Genere: urban / Grime<br />

Wiley è uno dei prominent man del collettivo Roll Deep,<br />

nato nella Londra garage nel 2002 e diventato presto<br />

uno degli act chiave della scena grime, vivaio di gente<br />

come Dizzee Rascal e Skepta. La sua Eskimo, rappata<br />

da Dizzee, è tra i classici assoluti del genere.<br />

Per questo settimo album l’uomo lavora in completa autarchia,<br />

scrive produce e rappa tutto da solo, rap ragga<br />

serrato e appiccicoso e basi fatte da bassi profondi e pulsanti<br />

con trame di tastiera vagamente minacciose e secchi<br />

clap. La supercommerciale Boom Boom Da Na, Your<br />

Intuition con una base sorprendentemente trattenuta e<br />

cesellata, I Just Woke Up che sembra quasi un pezzo degli<br />

Antipop Consortium, Wise Man & His Words praticamente<br />

jazzata, Talk About Life supersmooth, Pink Lady lo sketch<br />

con inciso autotune.<br />

Al di là dei singoli brani, un album molto equilibrato e<br />

misurato nel fotografare, da una prospettiva comunque<br />

autorale, l’evoluzione commerciale, leggi dancefloor e<br />

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