RETROMANIA - Sentireascoltare
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dell’ospite Mike Garson, session man per il bowiano Alladin<br />
Sane (Partners In Crime). E’ questo il nuovo volto<br />
radical chic del combo brasiliano (bella anche Red Alert),<br />
ancora pop-punk ma animato - e bentornati aggiungiamo<br />
- di sincera urgenza e fors’anche una rinnovata<br />
consapevolezza. Peccato per le schifezzuole nella parte<br />
iniziale.<br />
(6.5/10)<br />
Edoardo bridda<br />
daVE Cloud & thE goSpEl oF poWEr -<br />
praCtiCE in thE milKy Way (FirE rECordS,<br />
SEttEmbrE 2011)<br />
Genere: american white trash<br />
Bisognerebbe sempre andarci piuttosto cauti con i cosiddetti<br />
“miti underground”: basta un alone di stranezza<br />
ed ecco che ti spacciano per genio un semplice mestierante.<br />
Diteci infatti cosa c’entra mai lo sciamanesimo tirato<br />
in ballo dall’etichetta con il sig. Cloud, che da un<br />
quarto di secolo pare delizi con incendiare esibizioni dal<br />
vivo il sottobosco di Nashville. Sarà probabilmente un<br />
mago sulle assi di un palco, costui, nondimeno l’ascolto<br />
del suo nuovo disco restituisce cinquantacinque minuti<br />
di noia a tratti sconfinante nel puro fastidio.<br />
Una confusione dilettantesca che fa apparire Deviants e<br />
Butthole Surfers dei freschi diplomati di conservatorio<br />
- con però molta più creatività e gusto - e che ha spinto<br />
in passato l’altrimenti serio The Wire a definire Cloud un<br />
incrocio tra Roky Erickson e Charles Bukowski. Fosse<br />
vero soltanto la metà, questo poetastro dall’insopportabile<br />
birignao declamatorio caverebbe di tasca ben altro<br />
che tediosi siparietti esotici, ballate legnose e tremolanti<br />
atmosfere in bilico tra calligrafismi funk, space-rock<br />
e surf, che spesso alterna con una manovalanza hard<br />
da motociclisti del tutto priva di mordente e attributi.<br />
Accozzaglia tale da indurci a pensare dove stia, nel<br />
rutilante mondo della stampa musicale, il confine tra<br />
sprovveduto e furbacchione.<br />
(4.5/10)<br />
gianCarlo turra<br />
daVid thomaS broughton - outbrEEding<br />
(brainloVE rECordS, giugno 2011)<br />
Genere: folkpop<br />
Un talento purissimo. Dice qualcuno che il talento è la<br />
dote di sapersi fidare dell’istinto. Il capolavoro The Complete<br />
Guide to Insufficiency - già da allora si capiva<br />
ma a un lustro di distanza non mancano le conferme - è<br />
fatto di questo. Intuiva genialmente che si potesse fare<br />
musica minimalista prendendo i mattoni dagli stilemi<br />
del folk anglosassone. E, istintivamente, David Thomas<br />
Broughton canta senza pensarci, facendo che quegli<br />
stilemi vengano a lui, senza fatica - motivo per cui non<br />
manca di detrattori, che poco riguardo gli riservano, una<br />
volta nominate le derivazioni vocali e pathos da Anthony<br />
o Devendra Banhart.<br />
Le canzoni di Outbreeding sono articolazioni di un<br />
“buon senso” cantautoriale, tutto suo e del tutto coerente<br />
con gli anni in corso. Lo shift, rispetto a The Complete<br />
Guide e al precedente It’s in There Somewhere (fatti<br />
salvi alcuni casi, come Potential Of Our Progeny), è la dimensione<br />
band-oriented, l’uso di una batteria, di una<br />
chitarra, a volte di un pianoforte, di strumenti arrangiati.<br />
La voce raggiunge l’intensità a cui siamo abituati, tocca<br />
vette di svenevolezza, è sempre al centro dell’attenzione.<br />
David sospende però la tecnica tutta personale di<br />
coltivazione del frammento, prende a strutturare ciò che<br />
ha sempre lasciato all’ascoltatore, cioè la ricostruzione<br />
emozionale, aldilà della fruizione, dei brani. Ci si chiede<br />
cosa possa servire a Broughton una dimensione tanto<br />
tradizionale, se e in che modo riesca ancora a cadere<br />
in piedi. La risposta è contenuta in Staying True, una su<br />
tutte. Riscatto di scrittura e di arrangiamento, manifesto<br />
per la nuova personale onda. La canzone “chiusa” che<br />
chiude il capitolo canovaccio, forse.<br />
Non mancano certo, almeno nei titoli, le ripetizioni dal<br />
precedente It’s in There Somewhere (Ain’t Got No Sole,<br />
Nature). Eppure le due coppie di versioni sono aliene le<br />
une alle altre. Outbreeding è un altro mondo dove le<br />
cose che si chiamano alla stessa maniera sono diverse.<br />
Istintivamente continueremo a cercare sue notizie, a seguire<br />
le vicende di David, avendone colto l’intensità rara<br />
e la capacità di sorprendere con l’instabilità.<br />
(7.2/10)<br />
gaSparE Caliri<br />
dEEpChord - haSh-bar loopS (Soma<br />
rECordS, luglio 2011)<br />
Genere: tech-house<br />
Anche solo nelle nelle zone di contatto con deep e ambient-noise,<br />
la superiorità della formula techno-dub di<br />
Deepchord è fuori discussione: The Coldest Season<br />
è probabilmente una delle pagine più belle degli anni<br />
Duemila in quest’ambito e Liumin, dello scorso anno,<br />
un degno seguito che ha avuto il merito di divulgarne<br />
il verbo oltre i classici confini dell’elettronica. Con<br />
Hash-Bar Loops, registrato dal solo Rod Modell ad Amsterdam<br />
e pubblicato da Soma Records, il leggero calo<br />
di qualità dal 2007 a oggi va rilevato ma, di sicuro, non<br />
stigmatizzato.<br />
Senza Hitchell, Rod concentra maggiormente l’attenzione<br />
sull’ambient (il taglio Pan American di Spirits) e i<br />
minimal groove (Stars, City Center), tra beat chicagoani<br />
(Sofitel), latitudini marittime (i micro-tagli folk di Merlot)<br />
e altrettanto note basi propriamente techno (l’ordinaria<br />
Tangier e la più magmatica Electromagnetic); ritornano<br />
perciò fondamentali l’esperienza da solista (ricordiamo<br />
come sempre il capolavoro personale Incense & Black<br />
Light) e soprattutto l’uso del field recording, qui particolarmente<br />
rivolto allo studio della percezione del<br />
suono da club.<br />
Claps ridotti a phonoregistrazioni di sfregamenti di<br />
foglie (Oude Kerk) o sgocciolamenti dai tubi (Crimson),<br />
sporadiche voci lontane, riverberi del cemento e una costante<br />
cassa davvero subacquea (come se stessimo fuori<br />
del club dietro alla porta tagliafuoco di sicurezza - Balm -<br />
oppure nel bar in fondo a un lungo corridoio - Crimson)<br />
fanno di Hash-Bar un concept per esistenzialisti in pausa<br />
sigaretta che guardano il cielo fuori dal main stage con<br />
Biosphere in cuffia e i bpm ancora in corpo; un piede<br />
appoggiato al muro di una Amsterdam in ricordo Rave<br />
(Black Cavendish) e occhi fissi a guardar ebeti qualche<br />
particolare industriale nel capannone occupato (Neon<br />
And Rain).Diventa chiaro che il sound designer ci racconta<br />
le stesse cose di sempre scegliendo, di volta in<br />
volta, un’angolazione e setting di base differenti: Tokio<br />
era più omogenea e tech, la capitale olandese più magmatica<br />
e house. La maniera di una formula definitiva si<br />
rinnova grazie a un vecchio prefisso della critica musicale:<br />
art-dub-techno.<br />
(7/10)<br />
Edoardo bridda<br />
dESErt motEl - yarn (SoFa rECS, agoSto<br />
2011)<br />
Genere: inDie rock<br />
Li ricordo quattro anni fa all’esordio con un Out For The<br />
Week End ep che, come si dice, basta il titolo. Figuriamoci<br />
se un inveterato younghiano come il sottoscritto<br />
poteva non apprezzare. Poi dei Desert Motel non ho<br />
saputo più nulla fino ad oggi, allorché mi viene recapitato<br />
Yarn, l’esordio su lunga distanza per Sofa Recs. Che<br />
mi ha riservato qualche motivo di stupore. Pare proprio<br />
infatti che il quartetto di Aprilia capitanato dal chitarrista<br />
e cantante Cristiano Pizzuti, abbia allargato il raggio<br />
d’azione risciacquando i panni alt-country in un acidulo<br />
intruglio british. Ferma restando - bontà loro - la nota<br />
destrezza compositiva. Ed ecco quindi che gran parte<br />
delle dodici tracce in scaletta strizzano l’occhio ai palpiti<br />
indie-rock d’Albione, vedi quella Misery Road come potrebbero<br />
certi I Am Kloot, una Something che riverbera<br />
languori Oasis e le particelle Beatles di Valentine’s Gone.<br />
Discorso simile per una Flowers che addirittura scomoda<br />
impeto post-wave, mentre Let It Shine persegue carezzevoli<br />
mestizie acustiche che avrebbero spopolato in<br />
epoca NAM.<br />
Poi, siccome l’imprinting è una cosa seria, riaffiora eccome<br />
l’antica fregola Wilco - versante elettrico - nelle<br />
baldanzose trepidazioni di Paperstars e Kurtz. E’ un<br />
pendolare estetico tutto sommato intrigante, ancor più<br />
quando una Brugge, Belgium si aggira tra le coordinate<br />
con fare deliziosamente ibrido, cosa che fa - ancor più<br />
significativamente - pure quella Paths che ricordiamo<br />
nel suddetto ep in versione roots. Preso atto della nuova<br />
situazione, va detto che l’ascolto è gradevole anche<br />
se rispetto agli impegnativi modelli di riferimento paga<br />
dazio in termini di soluzioni sonore (puntuali ma abbastanza<br />
prevedibili) ed interpretazione (il canto si canta<br />
un po’ addosso con fare legnoso). Devono farne insomma<br />
di strada, i Desert Motel. Se scattano gli interruttori<br />
giusti, potrebbero farla davvero.<br />
(6.7/10)<br />
StEFano SolVEnti<br />
dEuS - KEEp you CloSE (piaS, SEttEmbrE<br />
2011)<br />
Genere: rock<br />
Tre anni dopo aver consolidato il ritorno a pieno regime<br />
col più che discreto Vantage Point, i Deus ribadiscono<br />
il concetto col tipico album da rock-band matura. Detta<br />
altrimenti, la scaletta di Keep You Close mette in fila<br />
nove pezzi piuttosto ispirati e ben confezionati, forse<br />
la miglior collezione dai tempi di The Ideal Crash. Non<br />
fa né meno né più di questo. E lo fa piuttosto bene: le<br />
turbe Nick Cave via Afghan Whigs di Darks Sets In (non<br />
a caso troviamo il caro Greg Dulli ai cori, come anche in<br />
Twice), il rigurgito eighties di Constant Now (particelle<br />
INXS e Police in fregola Wall Of Voodoo), le inquietudini<br />
gotiche di The Final Blast e una title track che spennella<br />
romanticismo noir innervato d’archi e xilofono, valgono<br />
abbondantemente il prezzo del biglietto. Sarebbe<br />
perciò intellettualmente disonesto non considerarlo un<br />
buon disco.<br />
D’altro canto, non possiamo esimerci di tornare con la<br />
mente a quei Deus che rappresentarono una possibilità<br />
di rock “diversamente indie” nei Novanta: lo spiffero nel<br />
vaso di Pandora da cui sprizzavano spiritelli zappiani,<br />
inquietudini mitteleuropee, foghe noise, allucinazioni<br />
cabarettistiche e improcrastinabili struggimenti. Ecco,<br />
di quel brio versicolore e indocile, non è rimasto praticamente<br />
nulla, barattato alla pari con la padronanza<br />
dei mezzi e la lucidità calligrafica. Poco male, si sa<br />
come vanno queste cose. Gli anni passano, cambiano<br />
gli obiettivi, si smerigliano le fregole eccetera eccetera.<br />
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