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RETROMANIA - Sentireascoltare

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due pistoiesi al debutto con Alpha To Omega. Un power-duo<br />

che non proferisce parola, sissignori: lasciano<br />

che a parlare sia la strutturata veemenza del suono, la<br />

capacità di scomodare con quel minimo di armamentario<br />

- si aggiunga una loop station - massimi sistemi<br />

quali Kyuss, Fugazi, i Wire più tracotanti, i primi efferati<br />

Red Hot Chili Peppers (nelle convulsioni funky di<br />

Destruction Derby) e persino quei buontemponi dei Foo<br />

Fighters (nella beffarda Teletubbie).<br />

Ma poi i testi in realtà ci sono, stanno nel libretto come<br />

un invito a cantarli (?) in autonomia, magari meditando<br />

su quella carrellata di volti catalogati con spirito lombrosiano,<br />

trovandoci non la segreta radice del male ma il<br />

segno stesso della patologia classista, poi conclamata in<br />

un’altra straordinaria immagine dove la borghesia “illuminata”<br />

si concede una seduta spiritica per indagare ciò<br />

che non gli è dato sapere. Avrete capito che la sostanza<br />

sonora - apprezzabile ma in fondo poco originale e brillante<br />

solo a tratti - rappresenta l’ingrediente principale<br />

ma non il migliore d’una proposta che sembra invece<br />

compiersi nel suo insieme concettuale, al modo d’un<br />

sacrosanto scapaccione che vaporizzi il torpore.<br />

Che la data di uscita - l’undici settembre - sia tutto fuorché<br />

casuale, è un sospetto da ritenersi fondato.<br />

(6.8/10)<br />

StEFano SolVEnti<br />

KaSabian - VEloCiraptor (Sony, SEttEmbrE<br />

2011)<br />

Genere: pop<br />

Ripartire dopo un album come West Ryder Pauper Lunatic<br />

Asylum non deve essere stato facile. La formula<br />

che si è rivelata vincente (quel peculiare melange di<br />

pop, dance, psychedelia e kasabianismi vari) non era<br />

replicabile senza tirare la coperta da una parte o dall’altra.<br />

Alla fine si è optato per la strada apparentemente<br />

meno avventurosa, quella di suono più pop e sofisticato.<br />

Hanno un bel dire Pizzorno e compagni quando affermano<br />

di aver voluto realizzare un album di rock classico;<br />

canzoni come la ben nota Days Are Forgotten, contengono<br />

alcuni dei chorus più immediati fin qui scritti dal<br />

gruppo del Leicestershire. Attenti però a parlare di gioco<br />

al ribasso, perchè i Kasabian questa volta guadagnano<br />

in ecletticità quello che hanno ceduto in originalità.<br />

Grazie ad un utilizzo più consapevole dello studio di<br />

registrazione (oltre ai notevoli mezzi messi a loro disposizione<br />

dall’etichetta) azzardano da un lato temi cinematici<br />

con tanto di orchestra (Let’s Roll Like We Used<br />

To) e pimpanti soul pop bacharachiani (Goodbye Kiss),<br />

dall’altro puntate più decise nella musica da club (I Hear<br />

Voices) e caldi riff da Stones dei tardi 70s (Re-Wired).<br />

Si divertono, e questo è evidente, soprattutto quando<br />

recuperano quella lunaticità del disco precedente: La<br />

Fée Verte e Neon Noon sono i due estremi della loro concezione<br />

di ballad psichedelica (sbilenca e merseybeat<br />

la prima, lunare e vagamente kraut la seconda) a dimostrazione<br />

che c’è ancora possibilità di redimere il loro<br />

lato più smaccatamente tamarro.<br />

Certo, è con brani Switchblade Smiles e Velociraptor che<br />

i quattro dimostrano di trovarsi più a loro agio: meccanismi<br />

dance rock ben rodati che loro descrivono come<br />

la musica del futuro, ma che alle nostre orecchie suonano<br />

come l’ennesima riproposizione dei loro groove più<br />

muscolari, quelli che ne hanno fatto degli entertainer di<br />

lusso anche per gli ascoltatori più sgamati. Oggi più che<br />

mai dipende quanto si ha voglia di stare al loro gioco.<br />

(6.6/10)<br />

Edoardo bridda<br />

KErEn ann - 101 (Emi, giugno 2011)<br />

Genere: pop<br />

Sembra che a Keren Ann i quattro anni di distacco tra<br />

questo nuovo 101 e il precedente omonimo abbiano<br />

fatto gran bene. Abbandonate le radici folk e le immaturità<br />

stilistiche, la fanciulla israeliana trapiantata nella<br />

capitale francese e poi a New York ha costruito un disco<br />

perfettamente pop, un album tondo, di giri, giochi melodici<br />

ben riusciti e ottimamente prodotti.<br />

Una nuova direzione, tutta concentrata nella via di mezzo<br />

che c’è tra una ballata dai tratti beatlesiani com’è Run<br />

With You e un singolone radiofonico e tirato come My<br />

Name Is Trouble. Quel che emerge è che Keren Ann conosce<br />

la materia, sa esattamente cosa significa mettere<br />

in piedi un discorso orientato alla melodia, alle armonie<br />

proprie della più pura musica pop. 101 è anzitutto un<br />

disco calibrato e raffinato, che dimostra le conoscenze<br />

musicali della sua autrice e la capacità di farle proprie.<br />

Un’interessante svolta per un talento vocale indiscutibile<br />

che tra uno sguardo agli 80s insieme a Belle and<br />

Sebastian e Madonna (Sugar Mama) non rinuncia ai<br />

60s con Blood On My Hands (il brano più convincente<br />

dell’intero album).<br />

Non siamo di fronte a qualcosa di strutturalmente importante,<br />

o a un disco che possa andare molto oltre i<br />

gusti dei fan, tuttavia 101 rappresenta una buona affermazione<br />

artistica da parte di un’autrice che fa dell’eterogeneità,<br />

delle più disparate scelte melodiche, il suo<br />

fiore all’occhiello.<br />

(6.8/10)<br />

giulia CaValiErE<br />

KindESt linES - CoVErEd in duSt (WiErd,<br />

giugno 2011)<br />

Genere: Dream-synth-pop<br />

I Cure del primo periodo virati al femminile. Certo, è sicuramente<br />

una lettura troppo semplicistica ma Covered<br />

In Dust, l’esordio lungo dei Kindest Lines, profuma di<br />

Disintegration lontano un miglio.<br />

La band di New Orleans si muove su territori non troppo<br />

lontani da quelli della casa madre Wierd, ovvero synthwave<br />

scura e malinconica, ma evidenzia uno scarto sensibile<br />

rispetto a certe oscure presenze del catalogo della<br />

label newyorchese grazie agli accenti accessibilmente<br />

pop e un romanticismo di fondo più marcati. In questo<br />

senso, il riferimento ai Cure è più un complimento che<br />

una accusa, visto che i tre riescono a far rivivere le atmosfere<br />

plumbee e opprimenti ma piene di romanticismo<br />

della prima fase - guarda caso anch’essa a tre - della<br />

band di Robert Smith.<br />

Jack Champagne (chitarre), Justin Blaire Vial (tastiere,<br />

drum programming) e Brittany Terry (voce, tastiere)<br />

inscenano una pop-wave spesso sintetica, dal taglio<br />

esistenzialista e dalle atmosfere dreaming che smussa<br />

gli angoli e le ossessività cold-wave di riferimento grazie<br />

soprattutto alla voce heavenly di Brittany: calda ed<br />

evocativa, la fa immaginare come una eroina goth rinchiusa<br />

in qualche torre medievale, ma da sola non riesce<br />

a tenere in piedi l’impalcatura sonora del trio.<br />

Gli spunti più interessanti però giungono quando il trio<br />

si smarca dall’ingombrante riferimento per muoversi<br />

in una sorta di electro-disco 80s in bassissima battuta<br />

come nell’ebm virata sensualità synth-pop di Running<br />

Into Next Year, nella disco-dark di Strange Birds o nel funk<br />

robotico e struggente della conclusiva Colors Treasured.<br />

Cosa questa che ci fa però ben sperare per le future evoluzioni<br />

personali.<br />

(6.6/10)<br />

StEFano piFFEri<br />

la muga lEna - Strani pupazzi umanoidi<br />

SEnza FaCCia (autoprodotto, luglio 2011)<br />

Genere: post rock<br />

Post rock prima. Poi psichedelia progressive, e qualche<br />

entrata jazz e funk: ecco servita la seconda prova dei La<br />

Muga Lena, ovvero Strani pupazzi umanoidi senza<br />

faccia.<br />

La formazione messinese riconferma la buona impressione<br />

che già aveva suscitato Ciarlatani di brasiliana memoria,<br />

aggiornando le fascinazioni Tortoise alla musica<br />

componibile dei Mariposa. Sembrano canzoni assemblate<br />

queste 8 tracce: pelli e chitarre pestano le solite<br />

poliritmie di casa Chicago (Soo-har & Zazz-o-Reus), arri-<br />

vano i synth e attaccano variazioni psych/prog più ‘70<br />

che Motorpsycho (La morte di Abu Mazen, Anonimia),<br />

poi Gaet ci mette la voce e pare un grunger navigato<br />

tipo Eddie Vedder (Ester Coraro).<br />

Unico neo: manca un pò di quello spirito surreale e<br />

weird che era nelle corde gruppo (vedi citazioni a fantomatici<br />

movimenti per i diritti psichedelici e copertina<br />

che pare uscita dal pennello di Magritte); c’è fantasia<br />

negli arrangiamenti ma rigorosità nell’interpretazione<br />

dei generi, e viene meno quel pizzico di personalità che<br />

avrebbe garantito il salto della palude indie. Ma non c’è<br />

fretta, comunque è un bel sentire.<br />

(6.8/10)<br />

StEFano gaz<br />

ladybug tranSiStor (thE) - ClutChing<br />

StEmS (mErgE, luglio 2011)<br />

Genere: pop rock<br />

Quattro anni esatti dopo Can’t Wait Another Day, metabolizzata<br />

- per quanto e come sia possibile in questi casi<br />

- la tragica morte del batterista San Fadyl, tornano i Ladybug<br />

Transistor di Gary Olson a propinarci la loro affabile,<br />

affidabile, appassionata disinvoltura. Nulla è cambiato<br />

in questo Clutching Stems - settimo opus lungo<br />

per la band di Brooklyn - se non un ulteriore grado di<br />

pacatezza, dietro la quale avverti vibrare il consueto mix<br />

di trepidazione e abbandono, la propensione per il pop<br />

accomodante ma nient’affatto scontato, messo a punto<br />

sintetizzando l’ineffabile guittezza di Scott Walker,<br />

l’arcobaleno pop Bacharach, i palpiti tenui Left Banke,<br />

un pizzico d’estro Morrissey, dosi omeopatiche Kinks<br />

e via discorrendo.<br />

Un intruglio (indie-)pop capace di filare liscio mentre<br />

ti suggerisce tutta la complessità del patrimonio genetico,<br />

in virtù della disarmante facilità di scrittura riconducibile<br />

alle calligrafie dei Jens Lekman, dei Calexico,<br />

dei Belle And Sebastian e dei Clientele. Dieci tracce<br />

senza clamorosi sussulti né cadute, tra le quali meritano<br />

particolare menzione Oh Christina (dalle gradevolissime<br />

fragranze cameristiche sixties), una Light On The Narrow<br />

Gauge mossa da morbida urgenza Prefab Sprout via<br />

Sea And Cake, l’indolentemente bossa Caught Don’t<br />

Walk e una title track che incede vagamente wave come<br />

un contagio dei più soffici Wire.<br />

Come al solito non sembra nelle loro corde licenziare<br />

un disco capace di fare il botto. Ma è sempre un piacere<br />

averci di nuovo a che fare.<br />

(6.8/10)<br />

StEFano SolVEnti<br />

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