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RETROMANIA - Sentireascoltare

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thE StEpKidS - thE StEpKidS (StonES throW,<br />

SEttEmbrE 2011)<br />

Genere: funksoul psych<br />

Mamma mia che bello questo disco, che goduria, sembra<br />

registrato nel 1971. In epoca di retrologie e retromanie<br />

generalizzate i tre Stepkids Tim Walsh, Jeff Gitelman e<br />

Dan Edinberg propongono direttamente il tuffo nel passato,<br />

senza troppi gradi di separazione dai modelli, senza<br />

finti scarti, mascheramenti o update: solo passione,<br />

scrittura (melodia) e cura per il dettaglio.<br />

Cresciuti nel circuito jazz & r’n’b della East Coast, con anni<br />

di carriera anche solista alle spalle, in questo debut album<br />

su Stones Throw (ovviamente) mischiano ad arte funksoul<br />

e West Coast in salsa psichedelica, puntando ad una godibilità<br />

pop, tra bonghi, cori in falsetto, tastiere elettriche,<br />

chitarra wah-wah, basso pulsante e inserti d’archi.<br />

Il risultato è sorprendente, sorprendentemente fresco, la<br />

soundtrack perfetta per il remake di un musical colorato<br />

e multietnico alla Jesus Christ Superstar. Ascoltare per<br />

credere (il canale Youtube della band; il video ufficiale<br />

della torbidamente psichedelica e spacey Wonderfox).<br />

(7.4/10)<br />

gabriElE marino<br />

thE WEEKnd - thurSday (SElF rElEaSEd,<br />

agoSto 2011)<br />

Genere: r’n’b nu-soul<br />

Il 2011 è finora soprattutto l’anno della riscoperta del<br />

soul in salsa dubstep e dintorni (James Blake) e indiefolk<br />

(Bon Iver). Tanti hanno fiutato lo spirito del tempo<br />

e sono andati sulla scia, soprattutto sul versante electro<br />

della faccenda (tra alti, SBTRKT, ma a suo modo anche<br />

Clams Casino, e bassi, Jamie Woon, CHLLNGR), e tra<br />

questi anche Abel Tesfaye aka TheWeeknd, classe ‘90,<br />

canadese di Toronto con genitori etiopi, che ne offre<br />

adesso la declinazione r’n’b e supercantata.<br />

A fine 2010 il debutto sul web con una manciata di pezzi<br />

sfusi, confluiti poi nel mixtape - ma in pratica è un album<br />

vero e proprio - House of Balloons (6.8/10; marzo 2011);<br />

adesso arriva questo Thursday, che alza decisamente<br />

il tiro, e già è stato annunciato un Echoes of Silence<br />

che chiuderà la trilogia in autunno (trovate tutto in free<br />

download sul sito ufficiale).<br />

House era un esordio ancora non completamente a fuoco,<br />

che però metteva in luce il metodo del ragazzo (un<br />

r’n’b electro intriso di dub e con abbocchi dubstep (certi<br />

stacchi di rullante), voce soul quasi femminile e non troppo<br />

effettata e sfumature ethno), con dentro un paio di<br />

pezzi bomba perfetti come biglietti da visita, la sensuale<br />

e scabrosa (vedi il video) What You Need e quella Loft<br />

Music che fin dal titolo fotografa ottimamente il mondo<br />

di Abel: una musica da appartamento che guarda al club,<br />

atmosfere notturne, produzioni levigate, avvolgenti e<br />

furbe, tanti ‘fuck’ e ‘nigger’ nei testi, un prodotto fichetto<br />

insomma, ma che nella maggior parte dei casi funziona<br />

alla grande.<br />

Thursday, sempre prodotto dal duo Doc McKinney & Illangelo,<br />

è meno pop, più atmosferico (i pezzi infatti si<br />

allungano), pigia sul pedale del pathos (l’iniziale Lonely<br />

Star) e inspessisce i riferimenti all’elettronica post-dub (le<br />

cadenze di Life of the Party, Heaven or Las Vegas) e al dubstep<br />

più minimal (Gone). Occhei, Rolling Stone sembra<br />

un pezzo di Craig David, ma la title track o un numero<br />

come The Zone sono fascinose nei loro sdilinquimenti<br />

(e si sente in trasparenza l’origine africana) senza essere<br />

stucchevoli. E questo è un ottimo ottimo risultato.<br />

(7.2/10)<br />

gabriElE marino<br />

thEE oh SEES - CaStlEmania (in thE rEd<br />

rECordS, luglio 2011)<br />

Genere: 60s psych-rock<br />

Lo dicevamo all’epoca di Warm Slime (un anno fa o poco<br />

più), e lo ribadiamo ora: John Dwyer non soffre di sindrome<br />

del foglio bianco, se è vero che pubblica dischi<br />

come niente fosse. A dimostrarlo, se ce ne fosse bisogno,<br />

il fatto che insieme a questo nuovo comeback rilascia<br />

anche il doppio vinile Singles Compilation Vol. 1 & 2 per<br />

la propria Castleface in cui raccoglie i pezzi piccoli sparsi<br />

qua e là.<br />

Stavolta però qualche novità c’è. Sembrerebbe infatti<br />

che il tatuato chitarrista abbia diretto quasi tutto in solitaria:<br />

chitarre, basso, drumming e ammennicoli vari (tra<br />

cui anche flauto, clarinetto, tromba, armonica ), registrazione<br />

compresa, sono suo appannaggio quasi esclusivo<br />

con i sodali (Bridget Dawson alla voce in I Won’t Hurt<br />

You e What Are We Craving?) e gli amici (Ty Segall in un<br />

paio di pezzi) relegati a figure di sfondo. Con uno come<br />

Dwyer però mai fidarsi fino in fondo e non si sa bene<br />

quanto e chi abbia contribuito.<br />

Di certo c’è che Castelmania è un gran bel disco che si<br />

stacca dalla solita cifra stilistica del progetto. O meglio ne<br />

amplifica certe peculiarità e ne mette in secondo piano<br />

altre. Forse c’entra il fatto che tutto o quasi sia creazione<br />

di Dwyer ma c’è un atteggiamento di maggiore padronanza<br />

dell’insieme e messa a fuoco di referenti e rimandi.<br />

In poche parole, Castlemania guarda indietro, trasforma<br />

il garage in attitudine, riprende la stagione d’oro del<br />

flower-power e la intorpidisce inanellando una serie di<br />

piccole gemme di jangle-pop talmente retrò da perdere<br />

quasi ogni connotato di modernità. Coretti, slanci acustici,<br />

testa che ciondola, non manca nulla (vedi alla voce<br />

highlight<br />

thE rapturE - in thE graCE oF your loVE (dFa, SEttEmbrE 2011)<br />

Genere: Disco-wave<br />

Cosa aspettarci dai Rapture finiti i Noughties? C’era forse una via d’uscita auspicabile dalla disco punk,<br />

p-funk di Echoes o dagli 80s di Pieces Of The People We Love? Sul fatto che questi ragazzi si completassero<br />

soltanto con produttori eccellenti non c’erano mai stati dubbi: dietro al successo dei singoli<br />

dell’esordio c’erano gli allora amici James Murphy e Tim Goldsworthy, dietro il make up del sophomore,<br />

un plotone formato da Paul Epworth, Ewan Pearson e niente meno che Danger Mouse. Ora che in<br />

consolle spunta un altro grande, quel Philippe Zdar (metà dei Cassius) che diede l’impronta decisiva al<br />

successo dei Phoenix, quel che rimane da aspettarci sono dei sintetizzatori angelici<br />

e circolari sopra a una formula che ha segnato un’epoca oramai lontana.<br />

Tocca ricredersi. Dopo cinque anni dallo sfortunato seguito di Echoes, abbiamo<br />

un album che mastica, coriaceo, innamorato, sincero, un torbido dance-rock<br />

newyorchese dove riconosci i riferimenti semplicemente facendo i conti con<br />

la storia della città dalla quale questi ragazzi provengono.<br />

How Deep Is Your Love, traccia scelta per introdurre il disco lo scorso giugno,<br />

diceva già molto, se non tutto, quello che bisognava sapere sulle nuove coordinate:<br />

è disco music imbastardita di cultura rock targata seventies (In The Grace Of Your Love), la pronuncia<br />

urbano/vissuto/annichilita di velvettiana memoria, i Television e i Neon Boys del caso e la cultura I will<br />

survive delle dive black. Il pezzo inoltre è pre-house senza essere vintagista, revisionista ma non citazionista<br />

e il gioco in produzione valorizza il backbone grezzo di piano, clapping, charleston e infine sax,<br />

contrasto di volumi che poi enfatizzano l’ingresso di una cassa a basso bpm.<br />

Nel disco inoltre, spiccano ballate macchiate di r’n’b che erano già nelle pieghe della discografia dei<br />

Rapture: nella conclusiva It Takes Time To Be A Man, Zdar mette sub bassi sotto intimismi strumentali,<br />

riff al piano da prima colazione, fiati Stax distratti, chitarrina rockish, soul espettorato e una coda di urli<br />

al cielo che manco gli Animal Collective. E’ il finale di un disco che in tracklist al secondo posto ha Miss<br />

You, e lì sì, c’è la synth-delia al cielo utilizzata con i Phoenix, Blue Bird invece, fonde tre canzoni in una<br />

mescolando carica post-punk, intermezzi psych-60, aperture kraut-cosmiche, Come Back To Me si prende<br />

una vacanza francofona campionando una fisarmonica infilandola in un ritmo in cassa, controcanti afro<br />

e il tipico canto wavey degli esordi, la traccia omonima si ributta nell’old skool sempre tagliando con<br />

ritmiche in presa diretta. La sola Never Gonna Die Again riprende certe soluzioni funky con cassa in levare<br />

che riportano diritti al 2003, idem per Can You Find A Way? che riporta ai primi Klaxons.<br />

Abbonando Children, cagata radiofonica 90s, il disco è dominato da quest’idea di prosopoea melodica<br />

(l’euro disco Sail Away, Roller Coaster uno degli esempi migliori) dove si sale e si scende. E dove allo slancio<br />

bianco trovi sempre questa spiazzante quotidianità black in contropartita. I Love New York.<br />

(7.3/10)<br />

Edoardo bridda<br />

Stinking Cloud). Ma l’occhio/orecchio di Dwyer stavolta<br />

sembra aver guardato anche al di qua dell’oceano, verso<br />

l’Albione psych-folk più mutante. Un disco che si fa<br />

classico, ma non della storia discografica del progetto,<br />

quanto dell’intera epopea del (psych)rock da un cinquantennio<br />

a questa parte. Il che non è affatto poco.<br />

(7.3/10)<br />

StEFano piFFEri<br />

thEgiornaliSti - Vol. 1 (boombiCa,<br />

SEttEmbrE 2011)<br />

Genere: inDie rock<br />

Ci sbaglieremo, ma dietro l’aspetto stiloso e il sound<br />

Strokes-oriented dei romani Thegiornalisti potrebbe<br />

nascondersi altro. E’ come se la formazione di Tommaso<br />

Paradiso, Marco Primavera, Marco Antonio Musella<br />

ed Emanuele Guidoboni avesse scelto consapevolmen-<br />

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