RETROMANIA - Sentireascoltare
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mara CarlylE - FlorEat (aCCidEntal, agoSto 2011)<br />
Genere: cantautorato<br />
Fa uno strano effetto trovarsi tra le mani una novità discografica che è stata in<br />
realtà registrata nel 2008 per una major (EMI). Qualcosa si inceppò allora e non<br />
per colpa della musica di questa ragazza dello Shropshire, le cui doti artistiche<br />
erano testimoniate dall’esordio del 2004 (The Lovely), con in singolo (Pianni)<br />
finito in uno spot IKEA, ma per le logiche di un mercato che si stava contraendo<br />
e una crisi - eh sì - che ha colpito anche l’industria discografica. Fatto sta<br />
che solo la caparbietà e la tenacia di Mara le hanno permesso di ritornare in<br />
possesso dei mater e di farci arrivare alle orecchie questo Floreat.<br />
La fioritura del titolo è tutta per un pop orchestrale elegante (con la Royal Philarmonica<br />
Orchestra) e dagli echi classici, tentato tanto dal folk allegro (Weird Girl), da asciugature trip<br />
hop (Away With Those Self-Loving Lads), da delicato popsoul dal retrogusto bluesy (But Now I Do) e dal<br />
jazz più notturno delle ballad (Nuzzle). Il fil rouge del disco è nelle orchestrazioni che talvolta (Bowlface<br />
En Provence) possono arrivare al fiorito (per quanto appropriato), ma generalmente servono da supporto<br />
al duttile contralto della Carlyle. A completare l’opera c’è un’elettronica minima che tinge di trip hop o<br />
si mette semplicemente al servizio delle canzoni. Non manca qualche esperimento più ardito, come la<br />
chiesastica (As Will Be Well) o il quasi ambient di King.<br />
Rispetto all’esordio, con Floreat la Carlyle si è presa il suo spazio nel mondo del pop femminile. Chissà<br />
che il prossimo disco non si possa ascoltarlo prima del 2014, perché in questi tre anni e mezzo, avrà<br />
comunque composto qualcosa, no?<br />
(7.2/10)<br />
marCo boSColo<br />
valvolare senza andare a parare esplicitamente in territori<br />
kraut. Rachel segue le stesse coordinate che su<br />
questo secondo album, si focalizzano ancora di più sul<br />
taglio melodico, allegerendosi sensibilmente sul fronte<br />
del minutaggio e della durata media. Quello che si ottiene<br />
è un poco meno che sensazionale seguito di Wizards,<br />
visto dall’altra metà del cielo.<br />
Luminaries & Sinastry è un disco che tradisce ad ogni<br />
nota o arcana soluzione melodica il sesso della sua<br />
autrice, forte com’è di una circolarità uterina e di una<br />
visione delle cose prettamente femminile. Che siano le<br />
ondivaghe e svogliate nenie di Synastry, le lunari mareggiate<br />
di Late Day Sun Silhouettes o ancora l’agrodolce<br />
filastrocca di Day Glow e l’occulto droning interstellare<br />
di Eight Nineteen, Motion Sickness Of Time Travel riesce<br />
a raggiungere sempre un equilibrio magico tra rigore<br />
sperimentale e sostanza comunicativa collocandosi necessariamente<br />
tra i must have di quest’anno e non solo.<br />
(7.5/10)<br />
antonEllo ComunalE<br />
my morning JaCKEt - CirCuital (ato, giugno<br />
2011)<br />
Genere: inDie, rock, folk<br />
Riportare tutto a casa, tornare là da dove si era partiti<br />
tanto, tanto tempo prima, in un viaggio circolare. Mito<br />
affascinante quanto imperituro, quello dell’eterno ritorno.<br />
Un percorso che non pochi artisti si ritrovano a fare,<br />
a un certo punto di carriera, più o meno inevitabilmente.<br />
È il caso di Circuital, sesto album di quella che è una<br />
delle band indiestream (indie + mainstream, se ci concedete<br />
il neologismo) più famose e acclamate d’America?<br />
Per niente, nonostante il titolo e le entusiastiche presentazioni<br />
di Jim James prima che potessimo verificarle con<br />
l’ascolto. Ok, l’approccio spontaneo da “cinque musicisti<br />
in una stanza” sarà tornato forse quello che ormai dodici<br />
e più anni fa aveva animato i primi, misteriosi passi<br />
(quelli di The Tennessee Fire e At Dawn, pietre miliari<br />
della nuova mistica Americana, quando le gote di Robin<br />
Pecknold erano tutt’altro che irsute), e la title-track in tal<br />
senso è una sorta di manifesto. Ma questi My Morning<br />
Jacket non sono altro che quelli che avevamo lasciato<br />
tre anni fa alle prese con gli “sperimentalismi” pop a tutto<br />
tondo di Evil Urges. Quelli che si erano - si sono - messi<br />
in testa di essere Radiohead, Wilco e Flaming Lips, pur<br />
alla loro maniera; e di poter fare coi generi un po’ quel<br />
che cavolo gli pare. A ragione, aggiungiamo, ché dopo<br />
un disco come It Still Moves (2003) puoi anche incidere le<br />
canzoni dei Muppets (cosa che hanno fatto per davvero,<br />
ma questo è un altro discorso).<br />
A ogni modo, a fronte della calda accoglienza di critica<br />
e pubblico (numero 5 di Billboard all’uscita, che non è<br />
il primo posto dei Decemberists - con cui condividono<br />
il produttore Tucker Martine - ma siamo lì), sorge<br />
il dilemma se in fin dei conti non sia tutto un grande<br />
abbaglio, il beffardo destino di una band che conosce<br />
la fama quando quel fuoco si è attenuato. O meglio, se<br />
sornionamente Jim James sia talmente genio da arrivare<br />
al successo di massa con un LP che contiene una canzone<br />
chiamata Holdin’ On To Black Metal (sic!) e non è altro<br />
che la rielaborazione di una canzone soul thailandese<br />
degli anni ’60 (E-Saew Tam Punha Huajai, di Kwan Jai &<br />
Kwan Jit Sriprajan; cercatela sul tubo e divertitevi). Alla<br />
fine a gente così puoi solo voler bene, anche perché,<br />
aldilà dei proclami e dei fuochi d’artificio, in cose piccole<br />
piccole come Wonderful, Slow Slow Tune, Movin’ Away c’è<br />
tutto quello che ha portato i My Morning Jacket lì dove<br />
stanno adesso. Meritatamente, senz’altro.<br />
(6.5/10)<br />
antonio puglia<br />
nEro - WElComE rEality (mErCury, agoSto<br />
2011)<br />
Genere: D’n’pop-step<br />
Dopo il botto commerciale di Magnetic Man, negli UK<br />
al primo posto in classifica c’è finito Nero, duo formato<br />
da Daniel Stephens e Joe Ray, vincitori, nel 2010, del<br />
premio Beatport come miglior gruppo dubstep. Come<br />
ci sia finito un gruppo drum’n’bass à la Pendulum ai<br />
vertici di una tal classifica non è dato sapere, ma ci basta<br />
scorrere brevemente il catalogo passato per comprendere<br />
la storia di un sound che da un nucleo dei classici<br />
cassa rullante anni Novanta (il singolo del 2005 Ragga<br />
Puffin / Torture su Reformed) passa rapidamente a vocals<br />
sempe più farciti e sample sempre più orchestrali e à la<br />
page (ne è un esempio eclatante Requiem, del 2006, su<br />
Formation, mitica etichetta jungle anni Novanta).<br />
Sentito il mix sonico proposto dalla coppia e la mega<br />
produzione da autoscontro di Chase And Status (praticamente<br />
i Tiësto del d’n’b, se ci concedete il paragone)<br />
non c’è affatto da stupirsi. Nero mastica e risputa un<br />
mega strato-proteico mix di nostalgia rave (vedi appunto<br />
Benga, Skream e Artwork ne “l’uomo magnetico”),<br />
fidget (Justice in Innocence), soul-step (con la brava vocalist<br />
Alana Watson), e in coda, synth-pop e old house.<br />
In definitiva è un condensato di elettro-pop (Me And<br />
You) e, al di là dei gusti, è una cartina tornasole per chi<br />
vuol farsi un’idea di cosa ballano le masse dance più<br />
pilotate, ma non solo: anche gli elettro nerd resteranno<br />
soddisfatti per la varietà di trattamenti melodici adottati<br />
(vedi l’ottimo mesh della citata Innocence). Ovviamente,<br />
chi viaggia dritto per la strada dei singoletti e delle<br />
autoproduzioni lo odierà.<br />
(6.9/10)<br />
marCo braggion<br />
niCola ratti - 220 tonES (diE SChaChtEl,<br />
maggio 2011)<br />
Genere: ambient electro<br />
Ci ricordiamo ancora tutti quando, ormai più di un lustro<br />
fa, Nicola Ratti fece la sua apparizione in solo con Prontuario<br />
Per Giovani Foglie, dopo o durante le esperienze<br />
collettive di Pin Pin Sugar e Ronin. Soffusamente,<br />
delicatamente, quasi in punta di plettro, pur lasciando<br />
emergere una sensibilità altra rispetto al mero chitarrismo<br />
più o meno intimista e di ricerca. Sempre alla ricerca<br />
cioè di una contaminazione tra linguaggi elettrici ed<br />
acustici e interessato a tessere trame elaborate su field<br />
recordings ed effettistica<br />
Strumenti vari e necessari per poter far esplodere il caleidoscopio<br />
della propria sensibilità artistica fatta di visioni<br />
tenui, a colori pastello, dai contorni labili e sfocati<br />
eppure sempre ben delineata nella propria evoluzione.<br />
Con Ode, in solo, o in progetti di coppia (Bellows, con<br />
Giuseppe Ielasi, o Lieu con Attila Faravelli) Ratti ha via<br />
via affinato in chiave digitale il proprio sentire musicale<br />
che ora con 220 Tones trova una sua elaborazione, anche<br />
teorica, di primo piano.<br />
Riallacciandosi all’ultima traccia di Ode e affidandosi a<br />
strumenti che si nutrano esclusivamente di tensione<br />
elettrica. Perciò sintetizzatori (analogici, ovviamente),<br />
Farfisa, giradischi, registratori a nastro sono gli strumenti<br />
coi quali Ratti elabora piccole orchestrazioni di sfrigolii<br />
e fruscii, energia elettrostatica e contatti, private o<br />
quasi dell’apporto della chitarra o di ogni riconoscibile<br />
sorgente sonora.<br />
Il tutto finisce con l’assumere forme malinconiche e<br />
delicate, quasi fossero melodici origami di suono sublimato<br />
in volute psichedeliche (Air Resistance), in textures<br />
increspate che si fanno raga infiniti (Untitled #1), in<br />
simil-techno subacquea (Doom Set) o in minimalismo<br />
ambient d’epoca (Cathrina).<br />
La chiosa affidata alla chitarra di Empire ci ricorda come<br />
il percorso musicale di Ratti viva di una sua coerenza<br />
interna e che, medium a parte (dalla chitarra + forma<br />
canzone degli esordi ai nastri/vinili + forme sperimen-<br />
96 97