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RETROMANIA - Sentireascoltare

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StEphEn malKmuS/thE JiCKS - StEphEn malKmuS and thE JiCKS - mirror traFFiC<br />

(matador, agoSto 2011)<br />

Genere: lo-fi rock<br />

Tra le cose che ci si potevano aspettare da una collaborazione tra due protagonisti assoluti dei Novanta<br />

alternativi come Stephen Malkmus e Beck, forse la migliore è accaduta davvero. Ovvero, la visione sonica<br />

di Mr. Hansen - qui in veste di producer - e quella dell’ex-Pavement si fondono come due immagini<br />

sovrapposte, armoniche ma impercettibilmente sfalsate, e alla fine - come è giusto - a prevalere è quella<br />

del rocker di Santa Monica, che in questo disco - il quinto e migliore firmato assieme ai fidi Jicks - azzecca<br />

forse la sua più sbrigliata incarnazione.<br />

Se trova sostanziale conferma la piega psichedelica che si è andata definendo nella decade abbondante<br />

di carriera solista, su di essa pare altresì posarsi la glassa serafica di chi ha<br />

raggiunto una nuova e inedita fiducia nei propri mezzi. Tanto da accantonare<br />

l’ansia di mostrarsi all’altezza anzi più forte di quel passato che ben sappiamo,<br />

tornato ad essere un patrimonio prima che un ingombro. E’ un po’ come se il<br />

buon Stephen si fosse immerso nello stesso lago denso che fruttò a Beck la<br />

ponderata irrequietezza di Sea Change, uscendone a suo modo pacificato,<br />

per certi versi compiuto. Il risultato è un’Americana sghemba, cazzona e sferzante<br />

ma appassionata e solida. Spesso vicina a certi esiti Wilco, quelli delle<br />

malinconie semiacustiche (l’accorata Share The Red), quelli dinoccolati (l’andazzo birbone di Tigers) e<br />

quelli delle mattane ruvidelle (il boogie’n’roll di Tune Grief).<br />

Proprio come nel miglior repertorio della band di Tweedy, è palpabile il senso di spaesamento consapevole<br />

e furore composto in vista d’una mezza età che sa guardarsi indietro, dentro e intorno senza<br />

fare sconti (in primo luogo a se stessa). In questo senso, una solida coerenza sottende l’arco emotivo<br />

che va dal sarcasmo screanzato di Senator al trasporto allibito (massimamente beckiano) di Asking Price,<br />

passando dalla puncicata Stones ammorbidita Gram Parsons di Gorgeous Georgie e dal torpore folkrock<br />

- vagamente Fred Neil - di No One (Is As I Are Be) e Long Hard Book (perturbazioni Seventies incluse).<br />

Senza scordare l’indie pop fuori giri - più disincanto che abbandono - di Stick Figures In Love (da qualche<br />

parte tra This Might Be Giant, Vaselines e La’s), i fantasmini Spirit e Moby Grape di All Over Gently ,<br />

l’indolenza scafata di Brain Gallop e quella estatica di Fall Away. Un disinvolto peregrinare estetico che<br />

individua in scioltezza gli estremi tra il fiabesco spacey-psych - figuratevi i Flaming Lips immersi nella<br />

lanolina - della strumentale Jumblegloss e l’obliquità scabra - i Nineties trapanati garage psych - di Spazz.<br />

C’è insomma una sorta di magia in questo disco, e credo risieda principalmente nella dimensione che<br />

ha saputo imporsi: una sintesi spigliata tra azzardo sbruffone e profonda consapevolezza, tra fluidi<br />

carotaggi stilistici e congiunture contemporanee, tra impertinenza esistenziale e più o meno implicita<br />

crepuscolarità. Proprio quello che ti aspetti da uno che si ostina (artisticamente) a vivere nella proverbiale<br />

linea d’ombra che unisce e separa il ragazzo dall’adulto. Non è da tutti giocare al fanciullino eterno<br />

ventottenne - come confessa lo scanzonato scozzo errebì/power pop di Forever 28 - senza sembrare<br />

patetici anzi ricavandone una cazzuta chiave di lettura. Infatti Stephen Malkmus non è uno qualunque.<br />

Ok, non ci voleva certo Beck per scoprirlo. Ma ha dato una grossa mano, mi pare.<br />

(7.7/10)<br />

StEFano SolVEnti<br />

dei conti ad emergere è la natura squisitamente english<br />

del lavoro: qualche riferimento al post punk sul sentiero<br />

di Manchester (specie nella voce di Thomas Cohen),<br />

tastiere che si rifanno al synth pop più glaciale dei primi<br />

Depeche Mode (Sentinal bloom), ed intrusioni nei ‘90<br />

con qualche tirata shoegaze vedi Summond the sound.<br />

Poi, giusto per smuovere un po’ le carte in tavola, spazio<br />

per una ballatona vagamente dark come Paris e per il<br />

finale poppettone stile Pet Shop boys di White Chapel.<br />

Il puzzle funziona: oltre tutte le patinature del caso (Amber<br />

Hands) c’è della sostanza, che non replica l’effetto-<br />

Funeral ma rimane comunque una diligente rielaborazione<br />

della storia in formato pop. Buon debutto.<br />

(7.2/10)<br />

StEFano gaz<br />

Sam brooKES - Sam brooKES (hElium, luglio<br />

2011)<br />

Genere: folk<br />

Motivi di interesse giornalistico attorno alla figura di Sam<br />

Brookes, ventiquattro anni inglese e folksinger esordiente,<br />

ce ne sarebbero a bizzeffe. Primo, il fatto che nel 2008<br />

abbia vinto un talent show con la sua band precedente<br />

The Volt - pare - incantando i giudici per la sua scrittura<br />

superiore. Secondo, perché ha girato la terra di Albione<br />

in compagnia di un grandissimo vecchio della musica<br />

inglese, Ray Davies, che pare con un francesismo lo abbia<br />

definito “fucking brilliant”. Terzo, perché ancor prima<br />

di pubblicare il suo disco d’esordio era su uno dei palchi<br />

del Glastonbury del 2011.<br />

L’eponimo disco d’esordio fa un po’ ridimensionare il giudizio<br />

dei talent scout, ché si sa che la televisione “allarga”,<br />

ma comunque ci mostra un giovane folksinger (che nelle<br />

foto promozionali assomiglia vagamente a un giovane<br />

Kid Rock) in grado di dominare il piè classico dei sound<br />

british, a cavallo tra il primo Donovan, Nick Drake, Davy<br />

Graham e Bertie Jansch ma “sporcandolo” un po’ con<br />

qualche eco americano, che a tratti ricorda gli esordi di<br />

Ryan Adams (Like a Butterfly) o con qualche atmosfera<br />

Constellation (In Design). Non c’è un brano che più degli<br />

altri si stampigli nella memoria dell’ascoltatore, però -<br />

hype a parte - la voce potente e duttile di Sam Brookes<br />

è da segnare sulla mappa.<br />

(7.1/10)<br />

marCo boSColo<br />

SElah SuE - SElah SuE (bECauSE, marzo 2011)<br />

Genere: r’n’b<br />

E’ belga. Ha 22 anni. E i brani del presente debutto in area<br />

nu soul li ha scritti tutti tra i 13 e i 19 anni. Ha già aperto<br />

un concerto di Prince. Selah sembra il classico surrogato<br />

dei contest canori e sul lato più masticato e noioso della<br />

frittata potrebbe essere ricondotta a una sorta di Josh<br />

Stone continentale condita con gli amati 70s di un Lenny<br />

Kravitz e aggiornati al reggae di I Blame Coco. Per<br />

fortuna, rispetto alla scontatezza dell’opener This World<br />

(le cui basi ricordano anche un famoso brano di Eminem)<br />

s’aggiungono varie influenze a rendere la sua proposta<br />

diversa dal solito copiaincolla mainstream: quello innanzitutto<br />

per Lauryn Hill e M.I.A. (l’ottimo trip-hop girato<br />

grime di Peace Of Mind fa davvero scintille) ma soprattutto<br />

per Erykah Badu (Crazy Vibes, Fyah Fyah), magari,<br />

in combutta con una (già) grande come Santigold.<br />

In particolar modo, da quest’ultima - e dall’Inghiterra<br />

trasversale di Andreya Triana - Sleah prende quel che le<br />

riesce meglio: brani ritmati e sanguigni, r’n’b cangianti a<br />

cui la ragazza di Leuven aggiunge una personale passione<br />

per il Ragamuffin, magari piroettato art-folk Cocorosie<br />

/ Joanna Newsom (vedi l’ottima traccia omonima e<br />

Black Part Love), perché no in levare (la citata Fyah Fyah<br />

tra citazioni Hendrix e Marley, Crazy Suffering Style), oppure<br />

mescolato a un eclettico impianto trip-hop su basi<br />

suonate dal vivo (batteria, chitarra, tastiere). In produzione,<br />

Patrice e Farhot (ma non solo), in particolare nei<br />

rimandi cinematografici americani e in generale nei tagli<br />

70s, ci mettono parecchio i Novanta di Tricky e Fugees,<br />

si notano sia nelle modalità post-moderne d’utilizzare il<br />

vintage (fiati stax e piano ragtime) sia nell’utilizzo delle<br />

sintetiche (tastiere analogiche, hammond).<br />

Varia proprio come la Janelle Monáe di The Archandroid<br />

ma non ancora spendibile a quei livelli, soprattutto per la<br />

calligrafia e l’eccesso tecnico nelle ballad (Explanations,<br />

Mommy) e in altri episodi xfactoreschi (pallosa Summertime,<br />

telefonatissimo il twang cinematico Please con il<br />

featuring inflazionato di Cee Lo Green), Sleah parte comunque<br />

bene. Chissà che farà da grande, visto che ora<br />

sono i grandi a decidere per lei.<br />

(6.5/10)<br />

Edoardo bridda<br />

SilKiE - City limitS Vol 2 (dEEp mEdi muSiK,<br />

giugno 2011)<br />

Genere: uk step<br />

City Limits Volume 2, ovvero, anche Silkie prova a cimentarsi<br />

negli orizzonti post-step UK. Dopo essere andato<br />

a fondo tra le pieghe UK bass con il volume 1 del 2009,<br />

il producer londinese mette da parte le ormai obsolete<br />

claustrofobie dub e insegue le nuove formule recentemente<br />

pervenute: a porsi in evidenza in questo caso<br />

sono le ambizioni space-ambient di Feel, che seguono<br />

gli ultimi passi di Starkey (ripasso obbligato alla notevole<br />

serie di EPs Space Traitor) e mosse come Selva Nova<br />

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