RETROMANIA - Sentireascoltare
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londiE - paniC oF girlS (FiVE SEVEn muSiC,<br />
SEttEmbrE 2011)<br />
Genere: new wave, pop<br />
Di questi tempi, quando ti trovi davanti gli originali fa<br />
sempre un po’ strano. Senti un pezzo qualsiasi di Move<br />
Like This e lì per lì ti sembrano gli Strokes, e invece sono<br />
proprio i Cars. E allo stesso modo senti l’incipit tutto synth<br />
appiccicosi e schitarrate power pop del singolo What I<br />
Heard, pensi si tratti di chissà quale gruppettino fresco<br />
fresco e invece sono proprio loro, i Blondie (o meglio, ciò<br />
che ne resta: Debbie Harry, Chris Stein, Clem Burke più i<br />
gregari del caso). Già, fa strano trovarsi davanti gli originali,<br />
e non è tanto una questione di rughe e voci arrochite<br />
dallo scorrere delle stagioni. Nemmeno una questione di<br />
nostalgia, o di implacabili paragoni con l’irraggiungibile<br />
- per tanti, e sempre variabili motivi - produzione che<br />
fu. Come per il ritorno dei citati Cars, dipende sostanzialmente<br />
da come lo fai, in barba al tempo che passa. E a<br />
primo impatto con la tripletta che apre il nono album (in<br />
trentacinque anni!) dei newyorkesi, diresti proprio che<br />
non lo fanno poi così male: D-Day, What I Heard e Mother<br />
hanno il tiro melodico delle tipiche hit alla Blondie; no,<br />
non siamo a livelli contagiosi dei tormentoni classici (anche<br />
della relativamente recente Maria, l’insperato rilancio<br />
del ’99 se ben ricordate), ma l’impianto regge, insomma.<br />
Il problema che emerge via via non è poi tanto lo stile<br />
o la forma, ovviamente (la ripetizione fisiologica della<br />
storica formula vincente, vedi il reggaettino facile facile<br />
di The End The End), ma la ciccia. E qui ce n’è poca,<br />
troppo poca anche solo per accontentarsi ed essere<br />
semplicemente felici che siano ancora tra di noi, i Blondie.<br />
Di fronte alla fiacchezza e (duole dirlo) la schietta<br />
bruttezza di cose come Girlie Girlie, Wipe Off My Sweat e<br />
Le Bleu, viene quasi in mente l’ultimo Bowie di Reality (e<br />
non è un paragone lusinghiero, se come speriamo conoscete<br />
bene il duca Bianco); e a poco vale la presenza<br />
nientemeno di Zach Condon dei Beirut, la cui Sunday<br />
Smile viene ripresa in modo dopotutto onorevole e la<br />
cui tromba è possibile sentire qua e là, così come un<br />
paio di ballate che appaiono quantomeno ispirate (China<br />
Shoes e Words In My Mouth, che avremmo visto bene<br />
in bocca a Marianne Faithfull). Non tutti i ritorni riescono<br />
col buco, ahinoi (le copertine invece sì: questa qui, del<br />
pittore olandese Chris Berens, è invero notevole).<br />
(5/10)<br />
antonio puglia<br />
blood orangE - CoaStal grooVES (domino,<br />
agoSto 2011)<br />
Genere: 60s pop, 80s<br />
Avevamo rintracciato il moniker Blood Orange, nuova<br />
pelle di Lightspeed Champion, prima con S’Cooled (ottobre<br />
2009) e Forget It (settembre 2010), poi quest’anno<br />
con una manciata di tracce: il singolo Dinner (uscito per<br />
la Terrible di Chris Taylor ovvero Grizzly Bear, CANT), Bad<br />
Girls, ed infine Sutphin Boulevard.Dev Hynes, del resto, ci<br />
parlava del nuovo album già parecchi mesi fa in un’intervista<br />
all’altezza del sophomore Life is Sweet! Nice to<br />
Meet You alludendo a una tracklist incentrata sul lo-fi, il<br />
black-funk e il dub. Scordandosi di menzionare l’aspetto<br />
dominante, gli amati 80s, il prolifico texano aveva posto<br />
l’accento sulla peculiare natura aperta del progetto, rimasta<br />
tale a risultato finito tra episodi caratterizzati dal<br />
pop estivo della decade edonista e divagazioni ritmiche<br />
e/o atmosferiche desert lounge e post-punk.<br />
Sul lato propriamente melodico, improntato su una sintesi<br />
di funk e soul, il meglio dell’album lo ritroviamo in<br />
Forget It (surf e rockabilly e una crema solare di strofe e<br />
ritornello à la Prince / Elvis Costello, synth e pennate di<br />
chitarra Chris Isaak e tanto di assoli trash rock), Champagne<br />
Coast (succo mainstream 80s di gran classe), e<br />
nella versione dell’album di S’Cooled (base disco-dub<br />
Adrian Sherwood / PiL, il gioco di chitarrine caraibiche<br />
e percussioni a cascata circa 84), tascurabili invece gli<br />
episodi su basi desertiche come I’m Sorry We Lied (un<br />
giochino di basi wave e chitarre Morricone-Calexico) e<br />
Complete Future (una scusa per aggiungere il proprio<br />
punto di vista alle sonorità del Rome di Daniele Luppi<br />
e Danger Mouse) con la sola Can We Go Inside Now a<br />
ricavarne un rotondo artigianato pop.<br />
Merito assoluto di Dev: aver riportato alle orecchie certi<br />
assoli trash blues à la Chris Rea (Are You Sure You’re Really<br />
Busy?), richiami Soho Culture Club e ricordi Bowie altezza<br />
Little China Girl, come dire: se l’intuito e il talento sono fuori<br />
discussione, fosse veramente concentrato il ragazzo classe<br />
85 potrebbe sfornare degli autentici capolavori pop.<br />
(7/10)<br />
Edoardo bridda<br />
butChEr boy - hElping handS (damagEd<br />
goodS, agoSto 2011)<br />
Genere: inDie pop<br />
Una ricerca su Google potrebbe trarvi in inganno, perché<br />
la sigla sociale di questo combo britannico è precedente<br />
all’omonimo film di Neil Jordan (del 1997, tradotto<br />
in italiano come “Il garzone del macellaio”). John<br />
Blain Hunt ha cominciato al sua attività poetico-artistica<br />
agli inizi di quella decade, inviando versi a testate varie<br />
e realizzando qualche piccola performance, ma sicuramente<br />
senza saper suonare una nota con la chitarra. Ma<br />
se da questo terzo disco della band vi aspettate spoken<br />
word, reading e simili, siete stati tratti in inganno anco-<br />
highlight<br />
anthony JoSEph & thE SpaSm band - rubbEr orChEStra (naiVE, SEttEmbrE 2011)<br />
Genere: spoken/funk<br />
C’è un mondo dietro alle parole di Anthony Joseph caldo d’Africa, colorato di Caraibi, annaffiato di impegno<br />
civile e politico, corroborato dallo studio, dalla performance, dal girovagare alla ricerca di una<br />
ricostruzione del grande mito black, quello del più imponente esodo che l’umanità abbia mai conosciuto<br />
nella storia. Una migrazione costante, quella del popolo d’Africa che ha portato il proprio carico di<br />
tradizioni, musiche, profumi, colori e in ogni riva che ha toccato ha saputo<br />
lasciare un segno e prendere in prestito qualcosa. Meticciato dell’anima e<br />
dell’animo prima ancora che culturale ed etnico. C’è tutto questo dentro ai<br />
settanta e passa minuti che compongono Rubber Orchestra, il nuovo disco<br />
del poeta, romanziere, ricercatore universitario (Birkbeck College, University<br />
of London) e musicista Anthony Joseph e della sua “voodoo punk” Spasm<br />
Band.<br />
Un riferimento obbligato è sicuramente lo scomparso Gill Scott-Heron, probabilmente<br />
il più famoso artista dello spoken word. Il suo fantasma, però,<br />
si aggira solo nella lunga e conclusiva Generations, in cui il canto della diaspora si tinge di soft soul dai<br />
ritmi dilatati. Per il resto, i riferimenti, a cominciare dalla copertina con quei giubbotti di pelle e quei<br />
dreadlock, sono per il funk anni Settanta, per George Clinton, per i Parliament. Il tutto contaminato<br />
con il jazz di Bennie Maupin e Ornette Coleman, Miles Davis e Herbie Hancock, e con il calypso, la soca<br />
e i ritmi in levare dei Caraibi.<br />
Se Joseph ci mette il soul, non tanto nella vocalità, ma nel prendere a cuore le sue storie di “political<br />
funk”, i suoi sette compagni di viaggio, di cui val la pena di ricordare almeno la chitarra nerissima di<br />
Christian Arcucci e i duttili fiati di Oscar Martinez, aprono il ventaglio al free/noise (Cobra chiudendo il<br />
cerchio con altro funk politico, quello targato Pop Group), al soul pop venato di funk (Started Off As A<br />
Dancer), a territori caraibici in senso più stretto (Money Satan, Damballah), ma anche venando lo spoken<br />
di Joseph di rock (Bullet In The Rocks che fa il verso anche alla quasi omonima canzone dei Rage Against<br />
The Machine).<br />
Rubber Orchestra è anche una raccolta di poesie dello stesso Joseph, pubblica in contemporanea con il<br />
disco. Il che non fa altro che sottolineare come la sua arte e quella dei suoi sodali abbia bisogno di spazi<br />
ampi per essere apprezzata: non ci sono ritornelli da facile presa, né strizzatina alle classifiche. C’è “solo”<br />
la storia della diaspora d’Africa.<br />
(7.5/10)<br />
marCo boSColo<br />
ra una volta.Anni da autodidatta autarchico di sinistra<br />
hanno dato a John Blain Hunt le basi per suonare che,<br />
unite agli incontri giusti, hanno portato alla formazione<br />
di una vera e propria band, esordio sul palco del Royal<br />
Air Forces Association Club di Glasgow nel 2005. Da lì<br />
all’esordio discografico il passo è breve (Profit In Your<br />
Poetry, 2007) e le buone recensioni portano a un sophomore<br />
a stretto giro di tamburo (React Or Die, lavorato<br />
nel 2008, ma pubblicato l’anno seguente).Ma se non c’è<br />
spoken word, cosa si troverà dentro alle dodici tracce di<br />
Helping Hands? Belle And Sebastian up tempo (Imperial,<br />
Bluebells, Russian Dolls), bozzetti cinematografici à<br />
la Tindersticks (J Is For Jamie, T Is For Tommy), qualche<br />
sprazzo messicaneggiante come di Calexico solo appena<br />
più elettrici (The Day Our Voices Broke, I Am The<br />
Butcher). Quel che rimane è un pugno di buone canzoni<br />
indie pop, screziate di intelligenza e bagnate da una<br />
splendida viola che - talvolta - evoca John Cale.<br />
(6.5/10)<br />
marCo boSColo<br />
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