RETROMANIA - Sentireascoltare
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roll thE diCE - roll thE diCE (lEaF, SEttEmbrE 2011)<br />
Genere: elettronica ‘80<br />
Non c’è niente di più contemporaneo dell’inattuale, del kitch, del retrò. La storia delle musiche elettroniche<br />
(e non) di questo ultimo paio d’anni è tutta un reverse in direzione storia delle storie, come dire:<br />
guardiamo le ombre che precedono i nostri passi, in mancanza di una direzione precisa da prendere.<br />
Chissà se tra qualche anno, il caos evidente di questi giorni sarà inquadrabile all’interno di un excursus<br />
più o meno evolutivo. Di fatto, ora come ora, il recupero nostalgico delle vecchie cadenze ’80 (soprattutto)<br />
e ’90, genera una serie di espressioni che non solo cercano nel retro-gusto<br />
una propria ragion d’essere, ma quasi una sostanza ineludibile per esserci nel<br />
qui ed ora del suono attuale. Oneohtrix Point Never ha un po’ rotto gli argini<br />
ed, assieme a lui, fenomeni come Expo ‘70, Jonas Reinhardt, Emeralds nella<br />
loro estetica new kraut hanno aiutato al recupero creativo del vecchio synth<br />
valvolare.<br />
L’analogico sempre più come valvola di sfogo per un digitale omologato, impalpabile,<br />
insapore. I Roll The Dice, arrivano al momento giusto quindi. Il duo<br />
svedese, originario di Stoccolma, composto da un ex Fever Ray, Peder Mannerfelt e da uno che si è fatto<br />
le ossa con soundtrack per film e TV, Malcolm Pardon, è abbastanza abile da rappresentare una sintesi<br />
sufficientemente personale di tutto quanto detto fino ad ora. Da un lato un’elettronica improvvisata<br />
chiaramente coordinata sulle istanze della vecchia synth analogica anni ’80, con corredo di strumentazione<br />
vintage e grammatica valvolare che recuperano inflessioni che nemmeno il Jean Michael Jarre di<br />
Oxygene, dall’altro un evidente gusto per il sinfonismo androide post kraut, ulteriore evoluzione della<br />
tradizione Cluster. Quando gli ingredienti vengono amalgamati alla perfezione, il duo è capace di erigere<br />
affascinanti costrutti cosmici con un gusto horror- claustrofobico che si affianca alle contemporanee<br />
derive dei vari Xander Harris e Umberto. Ma più che nell’horror tout court, qui siamo dalle parti di una<br />
sci-fi malmenata e polverosa, come le micidiali convivenze tra Tangerine Dream e Barry De Vorzon<br />
(quello della ost dei Guerrieri della Notte per intenderci ) dei capolavori Maelstrom e Cause And Effect.<br />
Una maniera prettamente cinematografica guida la mano dei due verso il minutaggio esteso, verso le<br />
scenografie di corredo con i rumori d’ambiente e le note sostenute di piano a servire le composizioni<br />
nel suo farsi (The Skull Is Built Into The Tool). Disco più sofisticato e meditato del precedente su Digitalis,<br />
con cui Leaf cerca di prendersi una propria fetta della grande torta nostalgica attuale.<br />
(7.5/10)<br />
antonEllo ComunalE<br />
tizia, I’m With You vede debuttare il nuovo chitarrista<br />
Josh Klinghoffer, dal momento che John Frusciante<br />
è di nuovo - pare definitivamente - uscito dal gruppo.<br />
Poco male: l’irrequietezza indolente e lunare di John<br />
viene sostituita dal più dinamico, acido e scabro stile di<br />
Klinghoffer (riecheggiante a tratti il caro vecchio Andy<br />
Summers), conferendo al sound il giusto grado di ruvidità<br />
e stranezza. Sia chiaro: ruvidità e stranezza sì ma<br />
perfettamente funzionali ad un progetto dalle evidenti<br />
finalità, ossia rifornire le playlist del globo con questo<br />
nuovo carburante marca RHCP.<br />
Si punta parecchio sulla non ancora troppo sbiadita<br />
fama di sobillatori di incroci tra inneschi hard-funk e<br />
spasmi hip-hop, divenuti col tempo sempre più civet-<br />
tuoli e disposti a conciliare le istanze della più rassicurante<br />
ballad folk-pop. Ok, confesso: non avevo troppa<br />
voglia di ascoltare questo disco. Il singolo The Adventures<br />
Of Raindance Maggie mi aveva sconcertato per la<br />
piatta ruffianeria, tutto un insulso strofeggiare melodia<br />
dolciastra in un guazzetto danzereccio variegato di ricami<br />
chitarristici glam. Ma qualcuno doveva pur farlo, ed<br />
essendo stato tra i pochi a non aver disdegnato (senza<br />
esagerare) il precedente doppio Stadium Arcadium,<br />
che volete farci, mi toccava espiare. Ebbene, in queste<br />
quattordici tracce ho trovato esattamente ciò che mi<br />
aspettavo: una affabile professionalità, tanto più innocua<br />
quanto più estrosa.<br />
Ci provano i quattro a smuovere le acque coi funkettini<br />
affilati post-punk (Factory Of Faith), svisando tra le parentesi<br />
liquide (vagamente flaminglipsiane) di Goodbye<br />
Hooray o sprimacciandosi il cuore con la struggente ma<br />
prevedibilissima ballad Brendan’s Deat Song (dedicata<br />
all’amico scomparso Brendan Mullen). Ci provano appunto<br />
ma non riescono a fare altro che mettere a lucido<br />
il blando sfavillio d’un marchio che non è (più) in grado<br />
di smuovere nulla oltre un’epidermica radiofonia. E che<br />
ovviamente, anche in ragione di ciò, otterrà il successo<br />
preventivato.<br />
Chiudo con la consapevolezza che al ritmo di un album<br />
a lustro - e cambiando chitarristi a piacimento - Kiedis<br />
e compagni potranno continuare praticamente in eterno,<br />
raccogliendo ogni volta i frutti del caso. Messa così<br />
somiglia a un incubo. Forse perché non si tratta di un<br />
incubo.<br />
(4.8/10)<br />
StEFano SolVEnti<br />
riChard youngS - ampliFying hoSt<br />
(JagJaguWar, SEttEmbrE 2011)<br />
Genere: psych folk<br />
Harry Dean Stanton vaga in mezzo alla Monument Valley<br />
mentre la chitarra di Ry Cooder si stende languida<br />
sulle immagini, carica di una compassione ultraterrena<br />
verso le umane miserie. Cooder prese come modello di<br />
ispirazione per la leggendaria OST di Paris, Texas il classico<br />
blues di Blind Willie Johnson, Dark Was the night,<br />
Cold was The Ground. Sullo stesso sentiero o per lo meno<br />
lungo questa direzione, ma con una sua grafia chiara<br />
e riconoscibilissima, sembra porsi oggi Richard Youngs<br />
che ritorna a battere il sentiero folk, continunando il discorso<br />
lasciato a metà con Autumn Response.<br />
Ad essere protagonista è, ancora una volta, una visione<br />
diagonale e distorta della chitarra folk. Il motivo dominante<br />
delle sei tracce che compongono questo nuovo<br />
disco è l’arpeggio dissonante, con l’intervento scoordinato<br />
di una chitarra distorta che acuisce una senso<br />
di precarietà, di incertezza su come l’armonia debba<br />
procedere. Come saltare su un confine molto labile tra<br />
la grazia e l’orrido.<br />
Come fanno notare dalla Jagjaguwar è un po’ lo stesso<br />
mix che reggeva le arcane volte del tormentato Six &<br />
Six di Jandek, ma senza quel buio più nero del nero<br />
che in quel disco inghottiva i lamenti del solitario del<br />
Texas in un’alienazione metafisica. Youngs è e rimarrà<br />
sempre votato ad un lirismo prettamente inglese che<br />
gli evita anche questa volta le risacche più nere e contorte.<br />
Semmai, stavolta si avvicina a Scott Tuma e al suo<br />
indimenticato capolavoro Hard Again e ad amplificare<br />
questa sensazione arriva anche l’intervento di Damon<br />
Krukowski alle spazzole delle percussioni, così come a<br />
sorreggere le cattedrali di polvere e rimpianti di Tuma<br />
intervenne all’epoca Jim White.<br />
(7.3/10)<br />
antonEllo ComunalE<br />
rinF - VolKSproduKtE (goodFEllaS, maggio<br />
2011)<br />
Genere: wave<br />
Ritorno davvero inatteso per i Rinf, gruppo dell’area<br />
wave fiorentina di inizio anni ‘80 riemerso recentemente<br />
dall’oblio grazie al lavoro della Spittle records, che tra<br />
ristampe e compile (Chaosjugend Strasse e Silence<br />
over Florence 82-84) ne ha riconosciuto il ruolo chiave<br />
all’interno della suddetta scena. Roba da vero underground<br />
insomma...<br />
Volksprodukte è, incredibile ma vero, il primo lp sulla<br />
lunga distanza, dopo un unico 12” uscito nel lontano<br />
1983. Dieci tracce in cui è fisiologica l’impronta del passato,<br />
ovvero quel sound neue deutsche welle che con<br />
ogni probabilità continuerà a mietere vittime tra vecchi<br />
e nuovi wavers. Ma non è tutto qui. Anzi, qui entra in<br />
gioco il bagaglio di originalità che ha da sempre contraddistinto<br />
il lavoro dei Rinf: ritornano le derivazioni<br />
Pil nell’apertura di Bamelo, le digressioni dei sax a-là<br />
Blurt/Contorsions nella splendida Panic Trotter (angst),<br />
abrasioni no-wave affacciate in Sprengkörper e nell’incedere<br />
ossessivo di Lichtvater, per finire con un pò di body<br />
music nella fermezza in 4/4 di World e Kauf.<br />
E’ un back to the past meticcio e sfumato, che potrebbe<br />
far scuola a tanti revivalisti anche in questo 2011.<br />
Ed invece la scelta è ancora per il culto feticcio: disco<br />
stampato solo il vinile, ovviamente a tiratura limitata,<br />
con lo splendido artwork dell’ inglese Jordan Mckenzie<br />
a campeggiare in copertina. Gente a cui non manca<br />
davvero lo stile.<br />
(7.2/10)<br />
StEFano gaz<br />
robotS in diSguiSE - happinESS V SadnESS<br />
(prESidEnt rECordS, giugno 2011)<br />
Genere: electro pop<br />
Arrivate troppo tardi per godersi il boom dell’electroclash,<br />
alle electro punk girls Robots In Disguise va riconosciuta<br />
per lo meno una certa coerenza. In dieci<br />
anni tutto è cambiato ma loro continuano imperterrite<br />
a propinare una zuccherosa mistura di art rock ed electro<br />
pop, che nel corso di quattro album ha subito solo<br />
marginali aggiustamenti.<br />
Va da sé che le ritmiche di questo Happiness v Sadness si<br />
allineano a questi tempi più fluidi rinunciando a quella<br />
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