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RETROMANIA - Sentireascoltare

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che non sai bene se sia più classica o rave post-Zomby.<br />

Await e Apart riesumano le voci liquide già utilizzate da<br />

Burial e soci soul-step in un giochino arcade innocuo,<br />

ma che con gli echi effettati ha un che di hauntologico<br />

e spiritato, quasi psichedelico, Motion è una dedica implicita<br />

alle voci innocenti di Björk, Welcome filtra voci<br />

liriche à la Antony, inabissandole in maelstrom cupi e<br />

senz’uscita, Now Time brilla di popness e di canzoncine<br />

per infanti, Fragile Hope si scontra con le atmosfere di<br />

Four Tet, perdendo molto per quanto riguarda originalità<br />

della proposta.<br />

Non si capisce bene dove voglia andare a parare il ventenne<br />

di Ithaca. Un disco di glich r’n’b che vive le contraddizioni<br />

post-00 del soulstep e del glo, situandosi in<br />

una microscuola che in Sun Glitters, Holy Other, How<br />

To Dress Well e nell’ultimo The Field trova buona compagnia,<br />

a cavallo tra elettronica, revival shoegaze e foto<br />

sfocate con colori pastello. Molta carne al fuoco che non<br />

prende una direzione decisa e facilmente riconoscibile,<br />

ma che preferisce fermentare in un limbo che ancora<br />

una volta propone (ma per quanto?) un revival new age<br />

per chi negli anni Ottanta era alle prese con le compilation<br />

Bimbomix. L’ennesima testimonianza dalla generazione<br />

post-noughties di dazed and confused people’.<br />

(6.6/10)<br />

marCo braggion<br />

banda blaCK rio - SupEr noVa Samba FunK<br />

(Far out, agoSto 2011)<br />

Genere: neo-brazilian<br />

Strano l’effetto che fanno i lifting. Nel senso che l’ensemble<br />

brasiliano guidato oggi da William Magalhães - che<br />

ha raccolto il testimone dal padre, il sassofonista e fondatore<br />

dell’ensemble Oberdan - prova a rinverdire una<br />

formula che, lungo i ’70, mescolava morbidezze black<br />

alla Kool And The Gang ed Earth, Wind & Fire guardando<br />

al jazz di Coleman Hawkins e ai maestri della<br />

bossanova, gettando nel calderone una presina di hiphop<br />

e qualche ospite prestigioso. Mossa che nondimeno<br />

sfocia in una serie di lusinghe ultraraffinate buone<br />

per la programmazione di Radio Montecarlo, come se<br />

un Donald Fagen autocompiaciuto timbrasse svogliato<br />

il cartellino per stendersi in spiaggia al più presto.<br />

Siccome i momenti più “modernisti” maneggiano soltanto<br />

luoghi comuni e quel poco di rap non disturba,<br />

pertiene alle due deviazioni dal percorso poste in chiusura<br />

consegnare le uniche cose memorabili. La falsa<br />

tranquillità di una Irerê con Gilberto Gil e una trasognata<br />

Aos Pés Do Redentor presa per mano da Caetano<br />

Veloso non bastano a conferire la sufficienza a un<br />

progetto dove Seu Jorge e membri dei Mobb Deep si<br />

aggirano spaesati. E che mostra sin troppe rughe.<br />

(5.5/10)<br />

gianCarlo turra<br />

barn oWl - loSt in thE glarE (thrill<br />

JoCKEy, SEttEmbrE 2011)<br />

Genere: Doom<br />

Il Signore verrà alla fine dei tempi a dividere i giusti dagli<br />

empi. I giusti ascenderanno nella Sua gloria. Per gli empi<br />

sarà pianto, stridore di denti, e il suono dei Barn Owl<br />

nella terra desolata.<br />

È una ferita lacerante Lost In The Glare, il lamento disperato<br />

dell’uomo senza una fede. Caminiti e Porras<br />

sono due anime smarrite che vagano nel deserto in<br />

cerca di un segno, in attesa di un bagliore accecante in<br />

cui lasciarsi andare. È una spiritualità che agogna uno<br />

spirito e si lascia sopraffare dalla paura (il folk desertico<br />

di Turiya) e dall’oscurità (la scurissima e opprimente The<br />

Darkest Night Since 1683 o il lamento per chitarre Light<br />

Echoes). Ma laggiù, da qualche parte, sembra spuntare<br />

sempre una flebile luce - i Popol Vuh inquieti negli<br />

apreggi vaganti di Devotion I, la trascendenza nel nulla<br />

del fingerpicking di Temple Of The Wind, o la maestosa<br />

speranza del tripudio finale al ralenti Devotion II.<br />

Umanamente parlando c’è da augurarsi che Caminiti e<br />

Porras trovino presto il bagliore accecante in cui perdersi,<br />

musicalmente c’è da sperare che non perdano un<br />

minimo della loro sceneggiatura visionaria.<br />

(7.3/10)<br />

FranCESCo aSti<br />

bioSphErE - n-plantS (touCh muSiC uK,<br />

giugno 2011)<br />

Genere: ambient techno<br />

Substrata, l’album più noto di Geir Jenssen, contiene<br />

uno dei brani (Hyperborea) inclusi nella colonna sonora<br />

dell’ultimo film di Terrence Malick The Tree of Life. A<br />

Seattle, lo scorso luglio, si è svolto un festival omonimo,<br />

Substrata 1.1, dove il musicista norvegese era presente<br />

sia nelle vesti di headliner sia come curatore di un workshop<br />

che ha portato un gruppo di fortunate persone<br />

alle Cascade Mountain Range per una session di phonoregistrazioni.<br />

Geir è un pilastro dell’ambient techno da oltre vent’anni.<br />

Dal suo primo lavoro ambientale a nome Bleep<br />

(The North Pole by Submarine, 1990) alla seguente<br />

carriera come Biosphere, il norvegese della prolifica<br />

Tromsø (Bjørn Torske, Röyksopp, Mental Overdrive)<br />

ha istituzionalizzato la propria figura come padre<br />

fondatore della arctic ambient (variante nordica della<br />

prima IDM britannica) e aperto la strada alle numerose<br />

highlight<br />

albErto arCangEli - pop doWn thE rabbit holE (autoprodotto, luglio 2011)<br />

Genere: pop psych<br />

Cose strane accadono ai tempi di internet. Tipo che una famosa azienda di pneumatici sceglie come<br />

soundtrack per una campagna pubblicitaria europea la canzone di un perfetto sconosciuto, pubblicata<br />

in un EP autoprodotto e liberamente scaricabile. E’ accaduto al circa quarantenne Alberto Arcangeli<br />

di Tavullia, cittadina marchigiana altrimenti celebre per aver dato i natali a Valentino Rossi. Proprio così,<br />

bisogna stare attenti perché le sorprese sono sempre dietro l’angolo, come ad esempio questo Pop<br />

Down The Rabbit Hole.<br />

Arcangeli si dichiara canonicamente devoto al verbo Beatles e Rolling Stones, ma se vi prendete il disturbo<br />

di dare un ascolto al famoso EP di cui sopra - Dreamsongs, licenziato un paio di anni fa - potrete<br />

imbattervi in ruspanti cover di Moby Grape, Buffalo Springfield e The Zombies, nonché una delle<br />

migliori riletture della kinksiana Sunny Afternoon che io ricordi. Sono tutte originali invece le dieci tracce<br />

di questo nuovo album che può essere considerato il suo primo vero e proprio,<br />

sintonizzato su un registro pop ammaliante e acidulo, marcatamente<br />

sixties tanto nel piglio sognante e giocoso quanto nel retrogusto obliquo.<br />

Non lo definirei un caso di retro-nostalgia quanto piuttosto la voglia di<br />

scegliersi una precisa collocazione emotiva, capace poi di riverberare nella<br />

contemporaneità sulla scorta di una scrittura fresca e intensa, oserei dire -<br />

addirittura - entusiasta.<br />

Vedi quando sboccia impetuosa e sghemba un po’ come potrebbe il nipotino<br />

gentile di Robyn Hitchcock (la title track), lennoniana come gli Eels<br />

più accomodanti (Hard Games e quella Wheels And Love il cui clip - realizzato dall’animatore Massimo<br />

Ottoni - si è aggiudicato il premio della crtica all’International Animation Festival Of Brazil), brumosa e<br />

struggente come dei Clientele in estasi Left Banke (Against The Day), tenera e indolenzita come capitava<br />

spesso ad Elliott Smith (Nothing Compares To Your Eyes). Parliamo di canzoni che non cambieranno la<br />

storia del pop-rock, ma ti possono cambiare il colore di un pomeriggio, se avete capito ciò che intendo.<br />

Il tutto in free download dal sito dell’artista, il che non guasta.<br />

(7.4/10)<br />

StEFano SolVEnti<br />

derive chillout dei Novanta. Negli anni, il musicista ha<br />

affinato le proprie tecniche come field recorder e scalatore<br />

professionista colmando così il gap tra la natura<br />

e musica. Il taglio ambientalista, del resto, si è presto<br />

tradotto in una misurata ricerca ricombinatoria degli<br />

elementi precedentemente messi in campo e non ha<br />

prodotto album che andassero oltre il compiacimento<br />

dei fan. Lo scorso lavoro (Dropsonde) poneva l’accento<br />

su un (post)jazz davisiano abbondantemente esplorato,<br />

mentre in quest’ultimo si ritorna ai quadretti narrativi<br />

della Tromsø pre-Röyksopp, a un IDM più brit che mai<br />

(echi Orbital in Genkai-1 e Fujiko) e alle solite soundtrack<br />

fine 70 (J&#333;y&#333;), con la differenza che questo<br />

lavoro si pone come un concept a dir poco preveggente.<br />

N-Plants è basato sul sogno post-bellico giapponese e, in<br />

particolare, sul futuristico programma nucleare del Paese<br />

iniziato nel dopoguerra. Lo scorso febbraio il norvegese,<br />

ignaro oracolo di quel che sarebbe successo, affascinato<br />

dalle fotografie delle centrali e preoccupato dalla loro<br />

vicinanza al mare ha inciso le tracce dell’album dosando<br />

il rassicurante nitore giapponese (il sogno post-war) al<br />

compatto movimento verso il futuro (Shika-1) attraversando<br />

il mix con sinistri sibili (Sendai-1, Ikata-1) e scuri/<br />

imperturbabili loop ritmici, aggiungendo infine sporadici<br />

monologhi in giapponese (Fujiko, Monju-1).<br />

E’ il lavoro più ispirato da un po’ di tempo a questa parte,<br />

ma quel che avrebbe potuto essere una grande opera, è<br />

in ultima analisi solo’ un lavoro dignitoso.<br />

(6.7/10)<br />

Edoardo bridda<br />

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