RETROMANIA - Sentireascoltare
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gavetta ha confezionato un album godibile nella sua<br />
interezza e meritorio di vetrine importanti.<br />
(6.5/10)<br />
gianluCa lambiaSE<br />
giorgio Canali E roSSoFuoCo - roJo (la<br />
tEmpESta diSChi, agoSto 2011)<br />
Genere: rock (combat?)<br />
Se Nostra signora della dinamite (2009) aveva spostato<br />
l’asse dalle parti di un cantautorato rock vero e proprio,<br />
mai tanto denso e pensoso per non dire intimista, con<br />
Rojo la premiata ditta Giorgio Canali e Rossofuoco<br />
torna a mettere l’accento sull’urgenza stradaiola, sull’indignazione<br />
scatarrata triturante retorica. Presentando il<br />
disco - il sesto del repertorio “solista” - lo stesso ex-CC-<br />
CP racconta di aver dovuto superare una crisi creativa,<br />
qualcosa a metà tra la sindrome da pagina bianca e lo<br />
stress da prestazione. Oppure, più probabilmente, una<br />
overdose da incazzatura per lo stato delle cose che lo<br />
inducevano perlopiù a masticare bestemmie.<br />
Poi s’è aperta una crepa di speranza, merito forse - chissà<br />
- del venticello primaverile che spirava dalle parti di<br />
Puerta del Sol, e puntuale è arrivata la reazione: ecco<br />
riaccendersi la spia del disincanto, ecco sgorgare queste<br />
undici canzoni come altrettante invettive calate a<br />
mitraglia, bestemmie - ebbene sì - ma acide e amare<br />
per demolire il facile conformismo delle illusioni, il tutto<br />
ricondotto alla irragionevole ragione del rock (in questo<br />
senso la opening track Regola #1 è una sorta di manifesto<br />
poetico).<br />
Lo spasmo è più diretto e sbrigativo che mai, insegue le<br />
proprietà liberatorie dell’immediatezza sacrificando un<br />
po’ di quel rovello scuro che nei precedenti lavori ispessiva<br />
la trama di ombre Noir Desir. Ciò non rappresenta<br />
affatto un problema quando l’estro è imbelvito: vedi la<br />
stoniana Risoluzione strategica #6, una non meno che<br />
travolgente Carmagnola #3 (dal formidabile finale) e<br />
quella specie di Bob Dylan trafelato - mai tanta armonica,<br />
in un lavoro di Canali - di Ci sarà (che se la sfornasse<br />
un Ligabue - ipotesi ab absurdum, s’intende - potrebbe<br />
galoppare nelle playlist d’ogni ordine e grado). A pagare<br />
dazio ahimè sono invece le ballate, a parte la discreta<br />
Controvento e una accorata ma un po’ fiacca Orfani<br />
dei cieli: si snoda piuttosto prevedibile difatti Treno di<br />
mezzanotte ed è piuttosto bruttina - un po’ come certi<br />
bolsi Modena City Ramblers, poniamo- quella La solita<br />
tempesta cantata assieme ad Angela Baraldi.<br />
Detto questo, ci sia consentito ribadire che quando lo<br />
zio Giorgio tiene lo sguardo truce ad alzo zero si va lisci<br />
e sferzanti as usual, vedi il sacrosanto pane al pane di<br />
Sai dove e le sincopi post-wave di Un crepuscolo qua-<br />
lunque. Insomma, con tutte le inevitabili e accidentali<br />
differenze del caso, è il solito Giorgio Canali. E questa è<br />
la buona notizia.<br />
(6.8/10)<br />
StEFano SolVEnti<br />
girlS namES - dEad to mE (tough loVE<br />
rECordS, giugno 2011)<br />
Genere: GaraGe pop lo-fi<br />
C’è un romanticismo combattuto ed esistenzialista alla<br />
base di questo disco e che distingue i Girls Names dalle<br />
dozzine di lo-fi pop act emersi in questi ultimi anni. Una<br />
sensibilità che permette loro di costruire dolcissime e<br />
pervicaci melodie dal taglio britannico, di quelle che<br />
si indossano per più di una stagione, a differenza delle<br />
decine di emuli dei Pains Of Being Pure At Heart che<br />
scorrazzano per l’underground.<br />
Probabilmente, non avessimo ancora nelle orecchie l’ultimo<br />
bellissimo album dei Crystal Stilts, apprezzeremmo<br />
Dead To Me con maggior vigore. Perché la materia<br />
trattata dal combo di Belfast, al netto della performance<br />
catatonica dei newyorkesi, è la stessa: garage 60s e languore<br />
noisy, influenze che in più di un’occasione arrivano<br />
a sovrapporsi.<br />
La sfasatura si avverte proprio sul piano delle melodie<br />
(doorsiani e diafani i primi, smithsiani e twee i secondi),<br />
ma anche su quello del carattere (fortemente tratteggiato,<br />
ai confini col grottesco quello degli Stilts, ancora<br />
in fieri quello degli Irlandesi).<br />
Ciò non toglie che i brani di questo grazioso dischetto,<br />
con il loro garage pop rumorso ed infettivo, ideale punto<br />
d’incontro fra l’allure shoegaze post J&MC e l’irrequietezza<br />
del C86 più mercuriale, forniscano un puntello di<br />
lusso a quel sentimentalismo dolciastro e appiccicoso<br />
che si vorrebbe adolescenziale, ma che fatalmente, è<br />
materia di struggimento per thirty something nostalgici.<br />
(6.8/10)<br />
diEgo ballani<br />
grEat SaunitES (thE) - dElay JESuS ’68 (il<br />
VErSo dEl CinghialE, maggio 2011)<br />
Genere: heavy psych rock<br />
Il duo nell’accezione post-White Stripes può voler dire<br />
garage-rock bluesy e pestone con basso&batteria che<br />
si slanciano a rotta di collo tra urgenza luciferina e incedere<br />
rock. Oppure psichedelia ascensionale infinita alla<br />
maniera degli Om. O ancora, noise brutale in modalità<br />
carrarmato come nel caso dei Lightning Bolt.<br />
Poi però, ed è il caso dei qui presenti The Great Saunites,<br />
ci sono esperienze che pur non innovando riescono<br />
nella affascinante fusione dei suddetti referenti. L. Kan-<br />
highlight<br />
dJ QuiK - thE booK oF daVid (mad SCiEnCE, aprilE 2011)<br />
Genere: hip hop<br />
C’era una volta Dj Quik e la Golden Age dell’hip hop statunitense. C’erano l’attitudine HC newyorkese<br />
e lo spirito rilassato e smooth di L.A., le scintille col morto tra East e West Coast e le guerre fraticide tra<br />
Crips e Bloods. C’era per l’appunto la carriera ventennale di un produttore/<br />
rapper/beatmaker nato e cresciuto a Compton tra più rispettati della costa<br />
ovest: una specie di Dr. Dre in miniatura.<br />
La novità è che Dj Quik, all’anagrafe David Marvin Blake, è ancora qui e ha<br />
pure un sacco di cose da dire. A dimostrarlo c’è The Book Of David, album<br />
licenziato dalla sua Mad Science in questo 2011 segnato dal’omologazione<br />
del crunk lilwayniano, dal noioso hipster-hop di Tyler The Creator o dalla<br />
compravendita dell’anima di giganti come Snoop Dogg (di cui Blake mixò<br />
nel 2007 l’album Ego Trippin) da parte dell’euroconvertitore David Guetta. A<br />
dispetto di tutto ciò, Quik ci regala una boccata d’aria e una colonna sonora<br />
perfetta per quest’estate insolitamente fresca e conciliante.<br />
E’ chiaro fin da subito con Fire & Brimstone in cui si rispolvera la tipica inventiva ritmica dell’hip hop con<br />
la h maiuscola; poi in ordine sparso Luv Of My Life, Ghetto Rendezvous, Flow For Sale o la troutmaniana So<br />
Compton, tutte figlie del bay area sound, impregnate di devozione funkadelica a cavallo tra hip house,<br />
G-funk ed un sacco di losangelini (Gift, Kurupt BlaKKaz). Le liriche sono quelle di uno che ha vissuto<br />
tutto sulla propria pelle senza nessun compiacimento del passato gangsta. In questo senso Killer Dope<br />
possiede il ritornello/manifesto con il refrain “the street never changes, only faces do”, come a dire che il<br />
ghetto-meccanismo è sempre lo stesso: cambiano solo le facce delle persone che scompaiono sotto i<br />
colpi di Glock.<br />
Non mancano poi i numeri r’n’b (Do Today, Real Women, Hydromatic, Time Stands Still), sempre pregevoli<br />
e sempre ben interpretati dai feat. di Jon B. o Dwele: miele e classe. Qua e là ricompare pure l’ultrabeat<br />
lirico (rubato dall’anticoniano Dose One) di Bizzy Bone direttamente dai defunti Bone Thugs-n-Harmony.<br />
A proposito di grandi ritorni, in Boogie Till You Conk Out, è proprio lo scambio di battute sul microfono<br />
tra una pietra miliare come Ice Cube e lo stesso Quik a restituirci il commovente momento verità di<br />
questo disco: “Quik you are a Genius!” “No... you are a genius!” “Ok I’m a genius! hahahhaha..”. Modestia e<br />
consapevolezza in un solo colpo.<br />
Per concludere, non pensiate che questo sia un disco per nostalgici. TBOD è piuttosto un lavoro che fa<br />
venire la nostalgia di un tempo in cui fare hip hop era anche un modo per tramandare la musica del<br />
passato direttamente nel futuro (dov’è finita la cultura del diggin’?) e non semplicemente un modo per<br />
espandere l’ego ed il portafoglio di qualche rapper con sindromi depressive. Bel colpo vecchio!<br />
(7.7/10)<br />
dario moroldo<br />
dur Layola (batteria) e Atros (basso) - nome de plume<br />
dietro cui si nascondo i due protagonisti - mettono in<br />
scena tre lunghi brani in cui dispiegano l’ampia apertura<br />
alare tra psych dilatata, stoner corposo e rock mefitico<br />
prediligendo ovviamente la profondità del groove<br />
coinvolgente.<br />
Se qua e là emergono reminder Sleep (Golden Mountain)<br />
o Black Sabbath (l’attacco della title track), l’afflato krautrock<br />
alla Can (si noti il gioco di rimandi del titolo dell’al-<br />
bum) e le ambientazioni oscure ed ipnotiche sono rese<br />
in maniera molto personale tra scarti improvvisi di velocità,<br />
ritmiche mai statiche e vertigini umorali. Luca Ciffo<br />
(Fuzz Orchestra) alla registrazione e Giuseppe Ielasi al<br />
mixing sono poi più di una garanzia per questo giovane<br />
progetto lodigiano e l’ennesima bella sorpresa per la<br />
label di Alberto Pirti Messaggi.<br />
(6.8/10)<br />
StEFano piFFEri<br />
80 81