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RETROMANIA - Sentireascoltare

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maChinEdrum - room(S) (planEt mu rECordS, luglio 2011)<br />

Genere: Juke, future GaraGe<br />

È bastato poco più di un mese dopo l’uscita a luglio perché la stampa internazionale si scatenasse intorno<br />

a quest’album, tutti (quasi) unanimenente concordi nel porlo tra i dischi dell’anno ma ognuno a<br />

inquadrarlo in modo differente: tra chi l’ha definito l’Untrue del footwork (!) e chi un album dall’anima<br />

pop (!!), passando per derivazioni breakbeat, stepping e dance di ogni sorta, oggi urge sicuramente<br />

fare un po’ d’ordine.<br />

Certo, lui è Travis Stewart, uno che ha le mani in pasta in tutte le più interessanti<br />

evoluzioni elettroniche moderne. Uno che da dieci anni scatena<br />

un polverone ogni volta che si fa sentire: da quel Now You Know del 2001,<br />

che ha praticamente traghettato l’idm anni ‘90 nel nuovo millennio, è stato<br />

un susseguirsi di sperimentazioni ambient lungo tessuti abstract hip-hop,<br />

fino ad arrivare al 2010 e al progetto Sepalcure, vero e proprio laboratorio<br />

di ricerca post-dubstep messo in piedi nella Hotflush di Scuba. Con<br />

quest’ultimo Room(s) il girovago Machinedrum di fatto tira le fila delle sue<br />

espressioni e realizza un multifacciale anello di congiunzione tra juke, future<br />

garage e soulstep, uno di quei dischi avant che toccano disinvolti l’intero ventaglio di ibridazioni electro<br />

moderne e rendono naturali le discordanze interpretative.<br />

Partiamo dalla questione più spinosa, ossia il footwork. Che le mosse intraprese dai vari DJ Nate, DJ<br />

Rashad, DJ Diamond presto o tardi avrebbero trovato il perfezionamento formale era largamente<br />

prevedibile, ma quel che conta è la modalità: con tracce come GBYE e Come1, Machinedrum applica<br />

l’approccio cut’n’loop alla materia 2-step UK garage, raggiungendo la sintesi dei tempi ritmici e lasciando<br />

che i due pezzi dell’incastro si migliorino a vicenda. L’imprinting dance britannico ne esce potenziato<br />

dalla muscolarità importata da Chicago mentre il juke, da artificio musicale da strada, diventa nobile<br />

breakbeat con grandi potenzialità di ascolto (e headbanging annesso). Ciliegina sulla torta, Youniverse fa<br />

tesoro dello zeitgeist e sfuma il tutto su frammenti soul e divertissement Jamie XX. E il cerchio si chiude.<br />

È dunque presumibile che il footwork abbia trovato il suo nord, ma Room(s) non va considerato un album-manifesto<br />

perché è anche (soprattutto) tante altre cose. È l’alta definizione dell’ellissi post-dubstep,<br />

che supera la deepness UK bass ma non esagera in lallazioni. Stewart parte da un fondo di reminescenza<br />

jungle breakbeat (U Don’t Survive), passa attraverso le cornici soul del primo Burial (She Died There),<br />

raggiunge SBTRKT e lo supera dalla corsia centrale, non cedendo all’infatuazione melodica e restando<br />

saldamente dentro la bolla step (Lay Me Down, essenza soul e attitudine dance tenendo comunque<br />

lontana la pista di Katy B).<br />

Non sarà l’album epocale che vogliono farci credere (non con James Blake e SBTRKT alle spalle, quantomeno),<br />

ma il meccanismo è solido e conquista il baricentro della scena attuale, sfoderando una tecnica<br />

invidiabile e offrendo al contempo materiale che dura nel tempo: come Now U Know Tha Deal 4 Real,<br />

jungle meets ambient meets r’n’b-soul, con produzione monumentale e tuffo al cuore immediato. Il<br />

nuovo testamento per la generazione dei soulsteppers è tutto qui, ora si attendono le reazioni.<br />

(7.7/10)<br />

Carlo aFFatigato<br />

Ray Charles (Hallelujah I Love Her So), Willie Dixon (Built<br />

For Confort), John Campbell (Aint Afraid Of Midnight),<br />

Bert Berns (Cry To Me) e Arthur Crudup (That’s All Right<br />

Mama) riarrangiate voce, chitarra e stomp box.<br />

“No overdubs, no pedal effects, no electronics triks”, recitano<br />

i crediti del disco. Tanto per sottolineare che anche la<br />

conservazione della specie è un affare serissimo.<br />

(6.4/10)<br />

Fabrizio zampighi<br />

marCo notari - io? (libEllula muSiC,<br />

SEttEmbrE 2011)<br />

Genere: pop-rock<br />

In Marco Notari convivono da sempre due anime:<br />

quella “istituzionale” riconducibile a una scrittura tutto<br />

sommato classica sorta di via di mezzo tra pop ad<br />

ampio spettro, rock e canzone d’autore (ai tempi del<br />

primo disco il nostro finì anche su Rai Uno) e quella “avventurosa”<br />

ascrivibile invece a scelte stilistico-estetiche<br />

comunque ricercate. Scelte che all’ Oltre lo specchio del<br />

2006 valsero una nomination a miglior esordio dell’anno<br />

al PIMI e un certo interesse da parte di addetti ai<br />

lavori e pubblico.<br />

A seguire il concept (ennesimo link col cantautorato, in<br />

questo caso dei Settanta) di Babele, per un discorso musicale<br />

costantemente in evoluzione e portato avanti con<br />

gli amici Madam. Fino ai giorni nostri, raccontati da un<br />

Io? che rimescola ulteriormente le carte facendo assomigliare<br />

Notari a un Lele Battista appena più edulcorato:<br />

stessa cura per i dettagli, stesso rispetto per la forma<br />

canzone, stessa sovrastruttura strumentale impeccabile,<br />

diverso il suono. Nel caso dell’ex cantante dei La<br />

sintesi una forma canzone comunque legata agli amati<br />

anni Ottanta, in Notari un sentire evocativo, barocco,<br />

con qualche concessione a elettronica (Hamsik), wave<br />

(La terra senza l’uomo) e attualità (una Io? che rimanda<br />

alle complessità arrangiative del Sufjan Stevens di The<br />

Age Of Adz).<br />

Il terzo disco conferma la buona caratura del musicista<br />

torinese e lo smarca dagli esordi spiccatamente indie,<br />

concedendo meno spazio alle chitarre elettriche e lavorando<br />

di più sulle sfumature e gli arrangiamenti. Pur<br />

nell’ottica di una diversità che non spiazza, rimarcando<br />

invece stili e attitudini ormai consolidati.<br />

(6.8/10)<br />

Fabrizio zampighi<br />

marCuS daVidSon/ChriS WatSon - CroSSpollination<br />

(touCh muSiC uK, SEttEmbrE<br />

2011)<br />

Genere: fielD recorDinGs<br />

Touch pubblica un altro capitolo del lungo libro che<br />

Chris Watson sta scrivendo sul mondo che ci circonda.<br />

Figura fondamentale nell’ambito della sperimentazione<br />

sonora, field recordist tra i più creativi e appasionati e<br />

firma che regge con dovizia di argomentazioni, la marea<br />

di dibattiti teorici che puntualmente si abbatte su<br />

un campo che attira troppi presuntuosi dal microfono<br />

pronto e la mente scevra di idee. Cross-Pollination è<br />

composto di due tracce distinte e separate. La prima,<br />

Midnight at the Oasis, è una classica escursione nello<br />

stile del Nostro, con il deserto del Kalahiri nelle ore notturne<br />

come scenografia di riferimento. Di solito non c’è<br />

molto di cui disquisire di fronte a questo tipo di opere.<br />

Il puro e semplice scatto ambientale come documento<br />

sonoro che fotografa l’eterno presente della realtà è<br />

quello che si nasconde dietro l’incessante proliferare di<br />

suoni provenienti dal mondo animale e che è alla base<br />

del lavoro di Watson fin dai tempi di Stepping into the<br />

Dark.<br />

Diverso invece il discorso che si nasconde dietro le pieghe<br />

di The Bee Simphony, piece sperimentale condotta<br />

da Marcus Davidson sulla base delle registrazioni che<br />

Watson fa di un gruppo di api in un giardino inglese.<br />

Davidson si accorge che la tonalità del ronzio degli insetti<br />

può fornire il tuning ideale per l’intonazione di un<br />

coro di voci umane che “imita” l’elemento naturale. Il<br />

risultato è un affascinante excursus che si pone sul crinale<br />

di una serie di lavori analoghi, come Nuna di Mira<br />

Calix e Adaptation And Survival dei Tribes Of Neurot.<br />

Poi da qui, tutto diventa possibile. Anche trovare paragoni<br />

con il canto degli aborigeni o con le musiche sacre<br />

delle prime registrazioni corali, come sostiene Davidson.<br />

Cosa che per altro avvicina moltissimo questo lavoro<br />

alla classica contemporanea di Penderecki, che proprio<br />

in questi territori si alimentava.<br />

(7/10)<br />

antonEllo ComunalE<br />

maya galattiCi - analogiC SignalS From<br />

thE Sun (garagE rECordS, luglio 2011)<br />

Genere: psych rock<br />

E’ ancora possibile divertirsi con la musica mischiando<br />

l’elettronica primordiale con i ben consolidati suoni<br />

acustici? Se pensiamo a tutto quello che gli anni 90 ci<br />

hanno propinato - riflusso negli anni zero compreso -<br />

istintivamente verrebbe da rispondere “assolutamente<br />

no”. E invece inaspettatamente capita che dal comune<br />

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