RETROMANIA - Sentireascoltare
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ladytron - graVity thE SEduCEr (nEttWErK<br />
muSiC group, SEttEmbrE 2011)<br />
Genere: electro pop<br />
Il problema con il nuovo Ladytron è che i quattro ci<br />
avevano abituato male. Apparsi come precursori, in un<br />
periodo in cui l’electropop non se lo filava nessuno, arrivavano<br />
sul pezzo col giusto anticipo per rimodulare i<br />
suoni sulla lunghezza dell’electroclash.<br />
Fiutando appena in tempo il cambiamento, seppero<br />
fare di Witching Hour e Velocifero gli ideali marchingegni<br />
wave pop psichedelici, inseriti perfettamente in<br />
un panorama indipendente che stava riscoprendo shoegaze<br />
e post punk.<br />
A questo punto, con un decennio sulle spalle, un nome<br />
rispettato un pò ovunque e una schiera di electro poppers<br />
che incalza, il quartetto si trova a ragionare sul da<br />
farsi, tentato da un ritorno a casa con gli onori dei prime<br />
movers e la ricerca di nuovi pertugi in cui far infiltrare il<br />
loro dar dark pop.<br />
La risposta, diciamolo subito, non sempre convince. Non<br />
lo fa con le percussioni latine di Melting Ice e tantomeno<br />
con i tormenti onirici di Ambulances, in cui le sofferte<br />
voci aeree infrangono definitivamente il tabù della glacialità<br />
ladytroniana.<br />
In una situazione del genere tanto vale affidarsi al mestiere:<br />
quando si tratta di costruire strutture sintetiche<br />
boreali, come quelle di White Elephant e Moon Palace,<br />
con quelle linee electro fluttuanti, gli inglesi dimostrano<br />
ancora di sapere il fatto loro; stessa cosa può dirsi degli<br />
assalti wave dello strumentale Ritual.<br />
Si rileva pure qualche positivo elemento di novità (con<br />
Trasparent Days, una sorta di Atmosphere pacificata, carica<br />
di mistero e positività, ideale colonna sonora per<br />
film sulla scoperta di nuovi mondi), tanto che alla fine riescono<br />
a far pendere la bilancia a loro favore; mai come<br />
in questo caso, però, si era percepita l’assenza di progettualità,<br />
cosa non da poco quando si è metà umani e<br />
matà macchine come i Ladytron.<br />
(6.8/10)<br />
diEgo ballani<br />
lantErnS on thE laKE - graCiouS tidE, taKE<br />
mE homE (bElla union, SEttEmbrE 2011)<br />
Genere: folk<br />
La voce celestiale di Hazel Wilde si spande come uno<br />
spirito sull’opener Lungs Quicken. E subito vengono in<br />
mente i Sigur Rós: atmosfere dilatate e angeliche per<br />
un dream pop dalle tinte bucoliche sorretto da spasmi<br />
elettronici. Come sottolinea la stessa etichetta, la<br />
stampa probabilmente (e i blogger soprattutto) farà<br />
largo uso dell’immaginario 4AD per raccontarci questo<br />
esordio sulla lunga durata del sestetto di Newcastle. E’<br />
tutto vero, ma ci pensa l’alternarsi delle voci femminile<br />
e maschile, quella di Paul Gregory, a garantire un po’<br />
di variabilità. Oltre a un immaginario che non si ferma<br />
sulla porta del gruppo islandese, ma attinge ad atmosfere<br />
cinematografiche (Keep On Trying), al folk-rock (A<br />
Kingdom, davvero adrenalinica ed evocativa), alle ballad<br />
narcotiche (Blankets Of Leaves, I Love You Sleepyhead).<br />
Ma fanno capolino anche circolarità post (If I’ve Been<br />
Unkind) e arrangiamenti cameristici.<br />
Si sono scomodati i Low e i Mazzy Star, band di cui si<br />
possono ritrovare in filigrana le lezioni. Ma la verità è<br />
che ci troviamo di fronte a un altro frutto dell’incontro<br />
tra il dream-pop e il folk più trasognato di questi ultimi<br />
tempi, quel settore che più che raccontare - come da<br />
tradizione - le storie di un luogo ne evoca la luce, i colori,<br />
l’allure, il ricordo. Suonato bene, arrangiato meglio,<br />
Gracious Tide, Take Me Home mieterà cuori e consensi,<br />
stimolerà incontri erotici e qualche viaggio della fantasia,<br />
ma come gli amori estivi, sarà dimenticato al primo<br />
temporale autunnale.<br />
(6.6/10)<br />
marCo boSColo<br />
lEgEndary Kid Combo (thE) - CaraVanSaray<br />
(u-pop, giugno 2011)<br />
Genere: folk-rock<br />
Rockabilly (Hangman) e balcani (Mustapha) miscelati<br />
a un recupero da isola ecologica che affianca i Beastie<br />
Boys di Fight For Your Rights, i Guns & Roses di Pasadise<br />
City, lo Snoop Dogg di My Medicine. In un punk-folk scapicollante<br />
a metà strada tra Sons & Daughters, Tito &<br />
Tarantula e Gogol Bordello che in fatto di (ipotetiche)<br />
truzzerie non scherza affatto.<br />
Ma li si perdona, i The Legendary Kid Combo, ché di<br />
immaginario si nutrono e quello propagandato dal loro<br />
terzo disco è come al solito polveroso e rustico, battagliero<br />
e di confine. Quanto basta per riconfermare le<br />
buone cose già ascoltate in passato e aggiungere un<br />
nuovo mattoncino alla produzione di una band che rimane<br />
soprattutto concerti, sudore, energia sprigionata.<br />
Chi cerca innovazione si rivolga altrove perchè qui le<br />
virtù sono altre: solidità, buona tecnica, entusiasmo da<br />
vendere. E un approccio fisico capace di conquistare anche<br />
quella U-Pop chiamata a curare la stampa del disco<br />
per il mercato giapponese.<br />
(6.4/10)<br />
Fabrizio zampighi<br />
highlight<br />
laura marling - a CrEaturE i don’t KnoW (Virgin, SEttEmbrE 2011)<br />
Genere: folk-rock<br />
Con gli artisti “giovani” c’è il rischio latente di eccedere con la severità. Il cinismo si mette in mezzo e,<br />
come nel caso della cantautrice britannica Laura Marling, si oscilla tra il desiderio di conferme e quello<br />
di una crescita che si riveli il più possibile armonica, degna di un indubbio<br />
talento. E’ stata infatti fulminea la carriera della ventunenne, assurta dal<br />
quieto Hampshire alle cronache con due dischi di folk-rock mai scontato<br />
che l’hanno condotta fuori dalla (presunta) “scena” di West London che ne<br />
battezzò i primi passi. Perché se è facile lasciarsi indietro i mediocri Noah<br />
And The Whale, un po’ meno lo è imporsi su Mumford & Sons e soprattutto<br />
su Johnny Flynn.<br />
In Alas, I Cannot Swim e in I Speak Because I Can respiravi però passione e<br />
padronanza di mezzi che A Creature I Don’t Know conferma appieno, tratteggiando<br />
altre belle canzoni di taglio classico all’insegna di una minuziosa cura per l’essenza e il dettaglio<br />
e della confessionalità ombrosa che fu di Joni Mitchell e Sandy Denny. Le cui anime Laura sovrappone<br />
(Sophia, The Beast) oppure fonde (la scarna, sublimemente inquieta Rest In The Bed Of My Bones; una<br />
briosa All My Range; la struttura umorale e i robusti echi dylaniani di Salinas). Altrove prediligendo vivide<br />
ipotesi di Leonard Cohen al femminile (Night After Night) o di una Suzanne Vega sospesa tra prateria<br />
e brughiera (The Muse). Si arriva alla fine senza accorgersene: si ricomincia, riscaldati di malinconia e<br />
appagamento. Felici, addirittura.<br />
(7.3/10)<br />
gianCarlo turra<br />
lEnny KraVitz - blaCK and WhitE amEriCa<br />
(roadrunnEr rECordS, agoSto 2011)<br />
Genere: funk rock<br />
Suvvia: ormai Lenny Kravitz è un libro aperto. Potremmo<br />
riutilizzare quanto scrivemmo tre anni fa per<br />
It Is time For A Love Revolution e avremmo bella che<br />
pronta la recensione di questo nuovo Black And White<br />
America. Che tuttavia si merita qualche riga aggiuntiva,<br />
non fosse perché spiega ancor più e meglio la fenomenologia<br />
pop del musicista newyorkese. A partire dal titolo,<br />
che ammicca appunto il menù sonico del Nostro: da<br />
una parte rock bianco (impetuoso, turgido, incalzante)<br />
e dall’altra funk-soul (con propaggini errebì e psych).<br />
Aggiungete aromi artificiali sparsi ed eventuali e voilà,<br />
il gioco è fatto. Attenzione però, la sintesi è un’opzione<br />
non contemplata: Kravitz si esprime a compartimenti<br />
stagni. Egli è tipo che va dritto al sodo, o di là o di quà.<br />
Bando alle copule promiscue e alle sfumature. Il suo repertorio<br />
è una celebrazione della rock star dominante,<br />
capace di contenere musica “bianca” e “nera” che non<br />
s’incontrano mai davvero ma si alternano in Lui come<br />
nella suite di un albergo a ore d’alto bordo.<br />
In questo senso, la dichiarazione di voler pubblicare un<br />
disco composto da tutti potenziali singoli è una smargiassata<br />
perfettamente in linea col personaggio, e che<br />
trova in effetti riscontro nelle sedici tracce in scaletta.<br />
Ogni pezzo sembra infatti progettato per uscire immediato,<br />
accattivante, efficace. Sempre comunque limitandosi<br />
ad un sapiente utilizzo dei cliché, e ottenendone<br />
quindi una profondità emotiva paragonabile a quella<br />
della leggendaria tartaruga addominale dell’aitante<br />
newyorkese (il fenomeno Kravitz non può prescindere<br />
dalla sua bellezza e dalla prestanza fisica). Va detto che<br />
quando si cimenta con le categorie black è davvero un<br />
drago, non tanto per la blaxploitation annacquata della<br />
title track quanto per il James Brown esplicitamente<br />
omaggiato in Life Ain’t Ever Been Better Than It Is Now,<br />
per il Marvin Gaye trafelato Jamiroquai di Liquid Jesus<br />
o per i testosteroni bradipi Isaac Hayes di Looking Back<br />
On Love.<br />
Meno bene - nel senso che stazionano dalle parti della<br />
più scontata insulsaggine - vanno le escursioni powerpop<br />
virate wave di In The Black, la tamarrata Cars di Rock<br />
Star City Life, lo sdilinquimento da boy band di Dream, il<br />
David Bowie altezza Ashes To Ashes di I Can’t Be Without<br />
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